di Emanuela Andreocci
Difficile che un film che tratta gli orrori della guerra non
faccia immediatamente breccia nel cuore degli spettatori, ma non scontato. Fury
di David Ayer, nei nostri cinema dal 2 giugno, ci riesce perfettamente,
recuperando i cliché più classici del genere ma riadattandoli secondo una nuova
estetica, iniziata coraggiosamente da Spielberg con Salvate il Soldato Ryan,
con l'obiettivo di raccontare non la guerra vinta dagli Americani, ma quella
persa da ogni essere umano. Perchè, a differenza di quanto canta De Gregori, la
guerra non è bella anche se fa male, e tutti ne escono distrutti, in un modo o
nell'altro.
Non c’è tempo per la teoria, non c’è tempo da dedicare a
moralità e sentimenti: la vita dei compagni dipende dalla morte dei nazisti,
chi uccide resta in vita. Questo il messaggio che comandante e compagni
impartiscono fin da subito a Norman, questa la realtà a cui il ragazzo sembra
non potersi abituare, ma non ha scelta. Fin da subito deve fare i conti con la
morte e con la propria coscienza, costretto, “violentato” da Don, che deve
pensare come prima cosa alla sopravvivenza, sua e degli uomini che gli sono
stati affidati.
La caratterizzazione dei personaggi è prevedibile ma
riuscita, ognuno ha la sua peculiarità, fuori del carro armato possono non
sopportarsi o minacciarsi, ma dentro sono una cosa sola, una macchina da guerra
ben oliata in cui ognuno sta al suo posto e sa esattamente cosa fare. Perché in
fondo, quello, è il lavoro più bello del mondo. Anche se è difficile andare avanti quando tutto sembra
perduto, difficile continuare imperterriti come fa il carro armato che continua
incessantemente a travolgere fango e cadaveri col suo cingolato, è l’unica cosa
da fare.
Fury non è solo il nome del mezzo (che col suo cannone
domina frequentemente la scena rivelandosi un ulteriore protagonista della
pellicola), ma è il sentimento che aleggia costante, insito ormai nell’animo
dei soldati, e che viene mostrato senza esclusione di colpi, senza addolcire la pillola, senza allontanare la
macchina da presa dalla concretezza di tali orrori, che riecheggiano anche
nella testa di Don come una marcia di morte in crescendo.
L’interpretazione di Pitt è egregia, incarna
perfettamente l’uomo valoroso e sicuro dal passato tormentato, l’uomo che ne ha
passate troppe per avere dubbi o incertezze e che, nonostante tutto, crede
nella possibilità di un lieto fine e forse, inaspettatamente, in Dio.
Anche gli altri protagonisti risaltano nei loro ruoli. Lerman, in particolare, grazie anche ai suoi occhioni azzurri e al suo viso da
bravo ragazzo, restituisce allo spettatore il disgusto e il terrore con cui
guarda il mondo che lo circonda, un mondo perennemente grigio e fumoso che
si tinge troppo spesso di rosso sangue.
In un mondo del genere c'è ancora possibilità di redenzione?
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