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martedì 17 giugno 2014

“Jersey Boys”: dalla luce del lampione alle luci della ribalta

di Carlo Anderlini

Belleville, New Jersey, 1951. Quattro teenager cantano sotto un lampione. “Quello è stato il massimo – dice  Frankie Valli alla fine del film – quando tutto scompariva e tutto quello che restava era la musica”. Frankie, il leggendario leader dei Four Seasons, gruppo pop che arrivò ai vertici delle classifiche discografiche dal 1959 al 1967 e la cui storia da nove anni entusiasma le platee di Broadway e del mondo. Frankie che ancora oggi, a 80 anni, oramai da solista, fa il tutto esaurito.  Clint Eastwood – attore e regista anch’egli senza tempo – consegna la sua e loro biografia al grande schermo, con mano ferma e tratto delicato, ricavandone un album di ricordi da sfogliare con grande attenzione.
L’amicizia di strada tra il candido Frankie (“…quello che rincasa alle undici”) e lo spavaldo Tommy si salda tra microcriminalità di quartiere e mito di Sinatra;  ma è soprattutto Frankie ad essere infatuato dell’amico, mentre Tommy è solamente ambizioso e trainante. Ad essi si uniscono dapprima Nick, l’arrangiatore, e poi Bob, il compositore. Tra furti e processi, protetti da un piccolo boss locale, i quattro sognano la gloria musicale ma vengono respinti più volte da impresari che chiedono solo quartetti neri, mentre ragazze che sanno di sapone già li adorano. Frankie, cresciuto nel mito della famiglia e dell’amicizia, sposa Mary, una ragazza di paese. Ma per sfondare occorrono tre cose: un nome, un sound e dei soldi. All’improvviso tutto si risolve:  “Four Seasons”, sa di vivaldiano e di fresco, Tommy procura i soldi necessari e Bob, che nel frattempo ha imparato che fare sesso “…è più divertente con un’altra persona”, sforna  “Sherry”  che viene apprezzata dal produttore Crewe e che balza subito al n° 1 della Hit Parade. Frankie la voce, Tommy l’ambizione, Nick l’orecchio, Bob il risolutore. Bob sforna altri tre successi mondiali. I Jersey Boys hanno conquistato il mondo.

Clint Eastwood traccia l’affresco di un gruppo di ragazzi legati da un’amicizia di tipo tribale, in cui la parola data è più di un contratto ed in cui l’esperienza della galera è quasi un punto di onore. Nel fare da guida a quei fatti lontani, le vicende sono raccontate con distacco e ironia: questa è la chiave di saggezza del vecchio cowboy. Talvolta gli attori bucano la cosiddetta quarta parete parlando direttamente alla camera, con il pubblico coinvolto fin quasi all’interazione: una magia del regista, una tenera furbata, così come quella di apparire di persona in una scena, come faceva un altro grande, Hitchock.
Ma Clint Eastwood ci ha insegnato, nelle sue opere migliori, che nulla è mai come sembra e che tutto è mutevole. In Mystic River fuoriescono vecchi scheletri dall’armadio dei ricordi; in Million Dollar Baby la fatalità stronca una carriera di gran successo; in Gran Torino vengono ribaltati pregiudizi ostili. Ed egli non poteva allora non affascinarsi, con sapiente mestizia, alla storia di quei bravi ragazzi che si dissolvono, in giacca e cravatta, proprio all’apice della loro popolarità.
Vediamo dunque Frankie e Bob che si alleano sempre più, fino a proporsi come distinta realtà musicale; Frankie perde la testa per una giornalista rampante e si separa dalla moglie, nel frattempo divenuta alcolista. Sua figlia lo prega di cantare per lei, ma Frankie è sempre più lontano, anche se continua a ripetere che la famiglia è tutto.  Durante l’Ed Sullivan Show, a quel tempo ritenuto la consacrazione del grande successo, i quattro scoprono che Tommy ha un pesantissimo debito con mafiosi e fisco. Nel corso di un drammatico confronto col gruppo, Frankie, fedele al codice del Jersey, interviene di forza per salvare l’amico di un tempo, poiché “…Tommy mi ha tolto dalla strada”. Ma a quel punto gli eventi precipitano: Nick si sfila dal gruppo e  la giornalista scende dalla giostra in cui si era ritrovata. Frankie ha ora perso la famiglia, il gruppo, i soldi. Perderà presto anche la figlia, e i sensi di colpa lo accompagneranno per sempre. Anche i suoi produttori lo stanno per abbandonare, in quanto “…Frankie non è Sedaka”. Ma quando tutto sembra perduto, con l’aiuto del fedele Bob, l’oramai ex leader dei Four Seasons stupirà il mondo intero con la dolcissima e liberatoria “Can’t take my eyes off you”, e il suo falsetto sarà di nuovo successo mondiale. Nel 1999, dopo 25 anni, i quattro Four Seasons si ritroveranno, incanutiti, in una magica serata, durante la cerimonia del Vocal Group Hall of Fame.

La passione di Clint Eastwood per la musica è nota, ed il regista è bravo a non annullarsi in essa. Il film è pieno di canzoni, ma non è un film musicale, le note transitano sulle immagini senza sovrastarle, la leggerezza delle vibrazioni allevia le ferite dei protagonisti. Gli interpreti cantano dal vivo come in sala di incisione, perché la vita stessa è live, come la vita di strada. E quella strada ove tutto ebbe inizio, fa da palcoscenico alla grandiosa scena finale: quasi si fosse a Bollywood anziché a Los Angeles, tutti cantano e ballano insieme, amici e nemici, mogli tradite e amanti, gay e eterosessuali, poliziotti e gangster. Frankie Valli ancora oggi continua a cantare, come Clint continua a dirigere. Ambedue hanno lottato e vissuto, sono caduti e si sono rialzati più volte. Ognuno se la ricorda come gli fa più comodo, e alla fine se la ridono di tutto.

Gli attori, magistralmente diretti ma sconosciuti ai più (tra tutti John Lloyd Young alias Frankie Valli), sono gli stessi interpreti dell’omonimo musical teatrale; Christopher Walken (che già cantò Can’t take my eyes off you in una scena memorabile de Il cacciatore) è esilarante nell’interpretare il lacrimoso gangster. Tom Stern, il direttore della fotografia, ci pennella i favolosi anni ’60 con pastelli delicati e caldi. 

Austero, incantevole, imperdibile.
Dal 18 maggio al cinema. 

venerdì 6 giugno 2014

"Rompicapo a New York": risorge Ground Zero e risorge Xavier

di Carlo Anderlini

Il regista francese Cédric Klapisch ha creato nel 2002 il personaggio di Xavier Russeau, si è affezionato ad esso e da allora non l’ha più mollato. Nel primo film della trilogia, L’appartamento spagnolo, Xavier, fidanzato con Martine, vive a Barcellona partecipando ad un programma Erasmus che gli potrebbe dare l’accesso ad un comodo lavoro statale. Insieme agli altri coinquilini, affronta varie esperienze, ma invece realizza il suo sogno di diventare scrittore, seppur di romanzi di basso livello. Nel secondo film del 2005, Bambole russe, lui e Martine si sono lasciati, Xavier intraprende anche l’attività di ghostwriter e incontra a San Pietroburgo una sua vecchia amica, Wendy, con la quale, dopo altalenanti e tormentate vicende, si sposa e fa figli.

Ed ecco ora riapparire Xavier, oramai sfigato quarantenne, in Rompicapo a New York, che è anche il titolo del romanzo serio che sta scrivendo. Lui ora vive a Parigi, ma il lavoro non procede come vorrebbe e il rapporto con Wendy si è oramai logorato perché “…l’amore non è una cosa logica”. Lei si trasferisce a New York per vivere accanto al suo nuovo compagno e anche Xavier, per non perdere il contatto con i due bambini, si costringe a seguirla. Tra le tentacolari e multietniche braccia di Chinatown, straniero tra gli stranieri, egli diviene parte di quel folle crogiolo di umanità problematica che convive con il borderline, con l’instabilità dell’umore e delle relazioni interpersonali; dove lo smantellamento della famiglia tradizionale è work in progress e dove il grande cantiere delle avversità è aperto H24.
Per sua fortuna, Xavier non è solo in questa guerra metropolitana. Rimasto fedele ad alcune amicizie catalane, viene assistito dalla vecchia amica Isabelle, nel frattempo scopertasi lesbica. Klapisch dà il meglio di sé nello scolpire il loro profondo legame di amicizia: complicità, comprensione, contrasto. Lui dona a Isabelle il seme per consentirle di fare famiglia con la sua fidanzata di origini cinesi. Mentre Xavier lotta alla ricerca di un job under the table, arriva il momento stritolante del divorzio, la difficile gestione degli incontri con i figli, i contrasti con l’Ufficio Immigrazione che non crede al suo nuovo matrimonio bianco organizzato per fargli ottenere la cittadinanza americana. In parallelo procede speditamente il suo romanzo, quello sempre sognato. E arriverà come sua ospite anche Martine, il suo primo amore, anch’essa madre stordita dalle legnate di un finito legame ma oramai abile donna d’affari. Xavier è frastornato, mangia polvere, vede instabilità in tutto, diffida dell’ amore. Ma intanto dipinge le pareti con i figli, si riappropria delle radici familiari pur disfacendosi del padre, si libera, e vuole avere anch’egli diritto al cielo. Quando tutto sembra perduto, Xavier diventa il guerriero che era in lui, trova l’illuminazione, scopre che l‘agognato punto B è a portata di mano: happy end, fine del suo viaggio e del suo romanzo, perchè “…quando torna la felicità, non c’è più niente da raccontare”.

La saga, la trilogia dell’ appartamento, è ora sicuramente finita. L’eterno loser ha attraversato sulla barca del dubbio e del coraggio l’insidioso oceano dell’ Amore, nel mezzo della tempesta perfetta ha fatto la sua scelta e come d’incanto è arrivata la agognata bonaccia. Come i grattacieli di Ground Zero che riemergono dalle ceneri, Cédric Klapisch ha incastrato alla perfezione l’ ultimo pezzo del suo puzzle rimettendo in piedi il suo spento eroe.
Il regista sembra indicare a sé stesso e ai suoi fedeli followers la giusta ricetta: il passato è fortemente radicato in ciascuno di noi, è come una medicina che dobbiamo assorbire. Il mantra della voce fuori campo del protagonista scorre su precisi passaggi emozionali che servono da puntelli necessari per sorreggere le architravi della crescita. Flashback usati come puntine di un foglio bianco appeso sul muro dell’ esistenza. Si riparte sempre da dove si è iniziato, da dove si è fallito, e i fallimenti passati non sono incidenti sgradevoli, ma pietre miliari del divenire. Le donne dell’ universo globalizzato di Klapisch sono figure tormentate ma comunque trainanti, fuoriuscite con coraggio e passione da intricati grovigli di rovi esistenziali, ora mogli deluse, ora amiche preziose, ora amanti accudenti, ma sono comunque loro che conducono la giostra caotica che ruota attorno ad ogni fattispecie di “famiglia”. Kelly Reilly (Wendy, la moglie), Audrey Tautou  (Martine, il primo amore) e Cécile de France (Isabelle, l’amica) traghetteranno Romain Duris (Xavier) dalla buia sponda dell’ignavia all’ approdo luminoso della consapevolezza. La famiglia, ecco il vero approdo, comunque essa sia e comunque articolata. L’unione, soprattutto: quell’unione che fa complicità e che edifica positività, quell’amore senza pregiudizi che umanizza e affranca i malcapitati delle grandi metropoli rendendoli protagonisti dei propri destini.

Lo svolgimento della vicenda procede equilibrato, in un fluido crescendo di delicata genialità. Il regista cura i particolari, si sofferma sugli sguardi insistenti dei figli dei separati, dà anima alle pornostar delle riviste hot, utilizza Shopenahuer e Hegel come consiglieri, rende esilarante una asettica riunione di lavoro con i cinesi. Siamo un po’ nella New York di Woody Allen. Questa fresca e non banale commedia termina sulla Main Street con una disneyana passeggiata collettiva, che trasmette un messaggio di assoluzione piena per tutti, perché (in amore e nei rapporti di coppia) il fatto non sussiste.




Nei cinema dal 12 giugno.

lunedì 2 giugno 2014

"3 Days to Kill": Kevin Costner formato famiglia

di Luca Cardarelli

Quando pensiamo a Kevin Costner, ci vengono subito in mente film come Robin Hood - Principe dei Ladri, Guardia del Corpo, Balla coi Lupi e Un mondo perfetto: i suoi film di maggior successo. Dopo questi tre, ci appare come un Golem d'argilla quella mostruosità di Waterworld che ha fatto leggermente (eufemismo) calare l'attenzione nei confronti di questo attore/regista che oggi si è addirittura svenduto ad una nota marca di tonno in scatola, risultando oltremodo ridicolo. Ma... C'è un ma. Quello che vi presentiamo oggi è un film che potrebbe riportare sulla cresta dell'onda questo sex symbol degli anni '90, un po' troppo frettolosamente dimenticato. 3 days to kill scritto da Luc Besson e diretto da McG (conosciuto per Charlie's Angels, Charlie's Angels più che mai, Terminator - Salvation, Una spia non basta più tutta una serie di documentari musicali su gruppi come Korn, Cypress Hill ed Offspring) ci riporta indietro di 20 anni, a quando cioè i film di azione e spionaggio mescolavano in sé elementi come l'ironia, il romanticismo, la comicità e li coprivano con una patina Noir a rendere il tutto più, passatemi il termine, cazzuto. La firma di Besson su questo Thriller/Action/Comedy si legge fin troppo chiaramente, tanto da sembrare nello stesso tempo un omaggio al suo Lèon ma anche un chiaro tentativo di far rivivere in una persona sola i personaggi interpretati da Kevin Costner nei sui film sopra citati. E dobbiamo dire che l'esperimento è pienamente riuscito.

Ethan Runner (Costner), un ex-agente della CIA prossimo alla morte per un tumore apparentemente incurabile, separato dalla moglie Christine (Connie Nielsen) e dalla figlia Zoey (Hailee Steinsfield) che vivono a Parigi, viene avvicinato da Vivian Delay (Amber Heard), altro agente CIA a cui è stata affidata la missione di eliminare un terrorista internazionale chiamato "The Wolf" (Richard Sammel) insieme al suo braccio destro "l'albino" (Tòmas Lemarquis). In cambio della sua collaborazione la donna gli offre un rimedio sperimentale contro il suo cancro. In concomitanza con questo ultimo suo incarico, da svolgere nella capitale francese, tenterà di riavvicinarsi alla figlia e alla moglie per passare con loro gli ultimi mesi della sua vita.

La cornice dell'elemento spionistico-action racchiude in sé un quadro che a sua volta è un insieme di storie e temi diversi che vanno dal rapporto tra un padre/marito con figlia/moglie da riconquistare, al tema sociale dell'integrazione razziale (Ethan si ritroverà l'appartamento occupato da una numerosa e pittoresca famiglia africana e imparerà a conviverci). Ma quello che salta più all'occhio è la personalità di Ethan Renner: freddissimo quando si tratta di usare le armi quanto estremamente premuroso nel ruolo di padre cui, per tre giorni, verrà affidata la figlia in assenza della madre in viaggio per lavoro. Il dna di questo personaggio lo ritroviamo in Lèon, cui la sceneggiatura bessoniana e i dialoghi strizzano più di una volta l'occhio, anche per mezzo di citazioni dirette come quando Vivy accenna al suo lavoro definendolo "fare le pulizie". Come già accennato, però, in Ethan Renner ritroviamo un po' della Guardia del corpo Frank Farmer, un po' del rapitore Butch di Un Mondo Perfetto. E in questo ruolo Kevin Costner ci sguazza a meraviglia. Non avrebbero potuto trovare un attore migliore per questo personaggio.

A livello di sceneggiatura appare tutto impeccabile, a differenza dell'altro film uscito in questi giorni, sempre scritto da Besson, Brick Mansions. Il cast, oltre al più volte citato Kevin Costner, è molto ben assortito. In particolare la giovane Hailee Steinsfield (già ammirata ne Il Grinta dei Coen) risulta molto apprezzabile nel ruolo affidatole. E che dire della Femme fatale impersonificata in Amber Heard (Il potere dei soldi, Machete Kills)? Un ruolo disegnato perfettamente a sua immagine e somiglianza. Occupa benissimo lo schermo nelle scene che la vedono protagonista (che sono anche quelle cruciali per quanto riguarda la parte action del film) e non fa sentire la sua mancanza quando ne esce. 
Molto ben girati sono gli inseguimenti che, anche per merito della magnifica Parigi che fa da sfondo, ricordano un po' quelli di The Bourne Identity, altro film ambientato in parte nella capitale francese.  
Molto chiari risultano anche gli intenti morali di questo film e le loro tracce sono molto ben distribuite lungo tutta la pellicola, non risultando mai banali o estranee al tipo di storia raccontata.

In conclusione 3 days to kill si profila come un potenziale blockbuster adatto sia a chi ama l'action più spettacolare fatto di sparatorie ed esplosioni, sia agli amanti dei buoni sentimenti con quel pizzico di comicità che rende tutto più frizzante e godibile. 

Nei nostri cinema dal 5 giugno.