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venerdì 25 aprile 2014

“Il mondo fino in fondo”: varcare il proprio limite può renderci migliori

di Carlo Anderlini

Nel film Il mondo fino in fondo si parte del rapporto scazzoso tra Davide e Loris, fratelli separati da sensibilità diverse. Davide e' gay, diciottenne stanco della sua clandestinità sessuale, mentre Loris è ignaro di ciò, marito e quasi padre, trentenne strutturato nell’azienda di famiglia e con l’ Inter nel cuore. Durante una trasferta insieme a Barcellona al seguito degli ultras, Davide conosce il cileno Andy, poche parole, molti tormenti e un po’ di lotta ecologica. Andy è in fuga da se stesso, ma in Davide tutto muta, esce dal carapace, lascia solo un biglietto al fratello e segue come un aquilone il suo nuovo amico fino a Santiago. Lontano dal suo piccolo paese diffidente ed ottuso, subito deluso nelle aspettative amorose ma contagiato dal dinamismo risoluto del gruppo estremista e della sua leader Ana (la ex ragazza di Andy), Davide si impasta confusamente di idee di lotta attivista facendosi coinvolgere anche in alcune incursioni. Quando Andy molla tutto e va alla deriva nella lontanissima Patagonia cilena, Davide e Ana si dirigono alla sua ricerca verso il Sud del mondo ("Vuelvo al Sur, como se vuelve siempre al amor"). Loris, il fratello, lo raggiungerà per non perderlo e per capire le ragioni della fuga. Oltre i confini terrestri ed oltre i loro confini mentali, essi incontrano persone, si confrontano e si scontrano, seguono il loro mantra, vivono. Ma into the wild non ci sono più nascondigli, e insieme al goal dell’Inter qui la verità arriverà pura e sferzante come il vento dei ghiacciai. 

Il regista, soggettista e sceneggiatore Alessandro Lunardelli esordisce con questo road-movie di ampio respiro, e la sua è una duplice arditissima sfida. Seguire con rigore e coerenza il doppio binario del percorso interiore di crescita di Davide e dello scontro ecologico globale non è impresa da poco. Ed infatti qua e là affiorano opacità e asimmetrie, la gestione dei protagonisti è talvolta senza briglie, le tematiche spesso galleggiano a causa della loro sovrabbondanza e l’impalcatura complessiva è poco ancorata. Il regista pare inoltrarsi pericolosamente sull’ondivago sentiero del non luogo patagonico, in cui gli approdi non si intravedono, qualcuno si perde per strada e un percorso vale l’altro; l’importante, sembra dirci, è non fermarsi mai, come vale in fondo per ogni percorso umano. Solo che l’opera sembra procedere e misurarsi più con un obiettivo geografico finale invece che fondarsi sulla metabolizzazione finale dei confronti identitari. Ma tutto questo, in un’opera prima che ha ricevuto un contributo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e una buona accoglienza al Festival di Roma, può anche essere giustificato. In fondo i nodi cruciali del film sono sufficientemente dipanati e la perdita dell’innocenza individuale e collettiva è testimoniata da precisi rintocchi scenici. 
Come succede, ad esempio, nei delicati passaggi di outing personale e familiare tra i due fratelli durante la ricerca di Andy. Quando tra i due cala il grande silenzio del ghiacciaio, la bianca verità occupa tutto lo spazio possibile, e parole mai dette finora dall'uno diventano parole mai sentite prima dall'altro. Snodi familiari irrisolti, una madre irrequieta che se ne andò via, lontani rancori insabbiati; goal, goal, e poi il goal finale liberatorio, e la partita è finita. La reciproca fragilità ha lasciato ora il posto alla fraterna leggerezza. Solo di fronte alla purezza primigenia (mentale o fisica che sia), al di là di quella finis terrae che è in ciascuno di noi, si possono abbattere le barriere mentali che deteriorano il senso del nostro vivere. 
Come succede, anche, nel percorso di lettura della realtà politico-ecologica: in un Cile ancora irrequieto, che da trenta anni cerca a fatica di dimenticare il suo oscuro passato, la lotta rivoluzionaria è limitata a interventi mediatici, condotti con approssimazione da attivisti che “non vogliono far male a nessuno”, desiderosi più di essere intervistati dal Times e di riconciliarsi con la loro identità perduta che di salvare il mondo; mentre la paura e la diffidenza sociale ancora ribollono sotto le antiche ceneri dell’odio e le multinazionali inquinano anche i più lontani avamposti. Ma la salvezza individuale e collettiva è nel farsi contagiare dalla bellezza, nelle grandi distese inesplorate della nostra psiche, dove si scongelano i ghiacciai delle nostre meschinità e dove non si è né a favore né contro, ma insieme. 

Dedicato soprattutto ad un pubblico giovane e abbastanza esigente, il film si avvale di una interpretazione frenata di Davide (Filippo Scicchitano, Scialla) e di un sovraeccitato Loris (Luca Marinelli, lo sguardo de La solitudine dei numeri primi), nonché della battagliera e malinconica Ana (Manuela Martelli). Ottima performance del tassista Lucho (Alfredo Castro). Il film girato ad Agro (paese immaginario del Piemonte), a Barcellona, a Santiago del Cile ed infine nei pressi della meravigliosa Laguna di San Rafael, arriverà nelle nostre sale il 30 aprile.

giovedì 24 aprile 2014

"Nymphomaniac vol. II": la liberazione dopo la tortura

di Luca Cardarelli

Probabilmente non farà piacere ai molti sostenitori dell'eccentrico, depresso e schizofrenico regista danese Lars Von Trier leggere queste righe, ma dopo aver concluso la visione del secondo volume dell'ultima sua opera, Nymphomaniac, ciò che ne viene fuori, filtrato dagli occhi di chi scrive, è un'incomprensibile accozzaglia di pensieri e riflessioni sulla vita (sessuale? religiosa? amorosa?) di Joe, la protagonista ninfomane  interpretata da Charlotte Gainsbourg, e Seligman (Stellan Skarsgard), il vecchio e saggio ristoratore della donna che, lo ricordiamo, ha trovato in mezzo ad un vicolo in preda al dolore sia fisico che morale nel primo capitolo

In questo secondo volume assistiamo all'evoluzione, o peggioramento, dell'ossessione di Joe nei confronti del sesso, e al tentativo da parte della stessa di "guarire". Si sottopone a terapie di gruppo che però abbandona dopo pochissime sedute giudicandole inutili e decide di passare a qualcosa di più "forte": complice un cresciuto Billy Elliot, ovvero K interpretato, appunto, da Jamie Bell, sperimenta la pratica masochistica. Ed ecco la rivelazione: scoprendo che il dolore provocato dalle vergate è una sensazione molto vicina a quella del piacere, passa in ultima battuta al "fai da te", chiudendosi in casa e sigillando porte, finestre e qualsiasi oggetto dalla forma vagamente "fallica" – rubinetteria compresa - con della carta da imballaggio e del nastro isolante. Il resto lo potete facilmente immaginare. 

La storia, comunque, ci mostra anche altro: assistiamo al  licenziamento di Joe (motivato con la sua ninfomania, of course), alla nascita del figlio, alla fine del rapporto con Jerome (Shia Leboeuf), alla sua assunzione in una poco ortodossa "società di recupero crediti" alle dipendenze di L (Willem Dafoe) e all'insegnamento della "professione" ad una ragazzina che si rivelerà ben peggiore di lei. Il tutto condito da farneticazioni etico-filosofiche da parte di Seligman, scene di sesso raccapriccianti miste a rappresentazioni di redenzione mistico-religiosa, e dal mea culpa di Joe che non riesce a guarire dalla sua "malattia".

Comprendiamo benissimo che una non precisa quantità di spettatori eleverà questo prodotto a "capolavoro assoluto della cinematografia mondiale", ma ci sentiamo di discostarci da codesto pubblico. Il cinema di Von Trier è pesante, lento, didascalico all'inverosimile e, il più delle volte, noioso. E così è anche Nymphomaniac.  Bisogna comunque tenere sempre a mente che le 4 ore complessive, divise nei due volumi, in realtà sarebbero 5 e mezza, quindi non sapremo mai come sarebbe stata la pellicola nella sua versione integrale a meno che non venga commercializzata un'edizione "director's cut" in dvd o bluray, ma al momento ringraziamo la distribuzione italiana per averci evitato ulteriore e prolungata sofferenza. 
Ci sentiamo di promuovere il finale, un minuto a dir poco esilarante e completamente avulso dai 239 precedenti (ovviamente non ci renderemo protagonisti di uno spoiler crudele, anche se la tentazione c'è ed è pure grande), ma per il momento, nel caso non si fosse capito, sconsigliamo la visione di questo discusso film cui è stata fatta fin troppa pubblicità (in barba all'etichetta di "Regista di nicchia" che si porta appresso da tutta la vita Von Trier).

mercoledì 23 aprile 2014

"Parker": è il principio che conta

di Luca Cardarelli

Non è detto che per produrre un bel film bisogna per forza spendere valanghe di milioni di dollari e Parker ne è la dimostrazione. Il film, diretto da Taylor Hackford (al quale vanno ascritti i bellissimi Ufficiale e gentiluomo con Richard Gere e L'avvocato del diavolo con Al Pacino), arriverà, finalmente, nelle sale italiane l'8 maggio prossimo, a più di un anno di distanza dalla data di uscita in quelle americane. Non conosciamo il motivo di questo ritardo: si potrebbe ipotizzare che il film e il cast non stuzzicassero i grandi manager italiani. Ciononostante la neonata Indie Pictures ha preso il coraggio a due mani e si è sobbarcata gli oneri della distribuzione nostrana.

Parker (Jason Statham) si trova a capo di una banda di manigoldi assoldati per rapinare un Luna Park da Hurley (Nick Nolte), il padre della sua fidanzata Claire (Emma Booth). Tutto va secondo i piani ed il colpo riesce, ma quando la banda si riunisce per spartirsi il bottino e dirsi addio,  Malander (Michael Chiklis, già apprezzato nelle serie televisive Il Commissario Scali e The Shield e nel cinecomic de I Fantastici 4 in cui interpretava La Cosa) propone a Parker di investire la somma guadagnata col colpo in un altro "lavoro" con prospettive di guadagni ben più alti. Il protagonista rifiuta e, dopo essere stato quasi ucciso dagli altri componenti della banda, inizierà il suo percorso di vendetta per scovare i traditori e recuperare i soldi che spettavano a lui e ad Hurley. Ad aiutarlo nel suo intento troverà Leslie (Jennifer Lopez), un'ambiziosa ma perennemente al verde agente immobiliare di Miami.

Parker, tratto dalla serie di romanzi di Donald E. Westlake e, in particolare, da Flashfire, ci parla di un ladro molto abile sia nella lotta che nell'uso di armi che opera secondo un rigido codice morale: bisogna sempre attenersi al piano, il caos è male. E infatti la storia si dipana su questo binario: ordine (Parker) contro disordine (i traditori). Una sorta di Joker al contrario, non un eroe che si batte per il bene comune ma esclusivamente per il suo. Buono e calmo finché non gli si mettono i bastoni tra le ruote: in quel caso viene fuori l'anima dannata del criminale che può tutto e non guarda in faccia nessuno. Il principio è quello che conta. Tutto il resto è secondario, persino i soldi. Un duro dal cuore onesto e tenero, con una donna che lo ama e che gli fa da "crocerossina" ogni qual volta esce da situazioni delicate con le ossa rotte e un'altra, Leslie, che, povera, bella, furba e intelligente, lo aiuta nella sua ricorsa alla vendetta. Dunque un prodotto che al suo interno unisce action adrenalinica, crime story e romanticismo (ma sempre ad un livello grezzo, mai patinato) sulla falsariga dei vari Arma letale o Die Hard che tanto hanno avuto successo nei favolosi anni '80/'90.

Jason Statham ha certamente il physique du role ed infatti non è nuovo a parti simili: basti pensare alla sua imminente partecipazione al settimo episodio della saga di Fast and Furious o ai personaggi interpretati in film come The Italian Job, Transporter, Death Race e  The Expendables che hanno in comune un alto tasso di sequenze adrenaliniche all'interno di trame da spy story. Il resto del cast gli fa ottimamente da spalla, compresa quella Jennifer Lopez che, smessi i panni dell'imbarazzante colf che diventa principessa (Un amore a 5 stelle) o dell'altrettanto imbarazzante wedding planner in Prima o poi mi sposo torna ad interpretare un personaggio alla Karen Sisco di Out of Sight (anche se qui non è esattamente una detective), ovvero la donna bella e determinata che, superata la timidezza iniziale, si butta a capofitto in una delicata faccenda che le fa rischiare anche la pelle.

Ci sentiamo dunque di promuovere questo action movie dai costi di produzione relativamente bassi, senza eccessive pretese, che mira ad intrattenere il pubblico e che, potenzialmente, potrebbe riscuotere un notevole successo al box office, distribuzione italiana permettendo.

lunedì 21 aprile 2014

“The amazing Spider-man 2: il potere di Electro”: Peter Parker è di fronte al suo destino

di Carlo Anderlini

Dopo i successi dello scorso decennio relativi alla trilogia di Spider-man, lo studente timido e complessato Peter Parker è stato riportato alle origini nel 2012 dando vita alla nuova saga Marvel The Amazing Spider-man. Rispettando rigidamente la periodicità biennale esce ora il secondo sequel di questo reboot (il terzo ed il quarto sono previsti per il 2016 e 2018).
Ecco allora di nuovo Peter Parker (come nel primo episodio, l’attore Andrew Garfield) il quale vorrebbe penzolare allegro tra i grattacieli e dividere il suo tempo tra i suoi affetti più cari: Gwen, la sua ragazza (una Emma Stone bionda, fresca e talentuosa) e la zia-madre May (l’intramontabile Sally Field). Ma un grande pericolo incombe su New York, quel terrificante Max Dillon-Electro (Jamie Foxx) che sta arrecando distruzione: la città ha bisogno di essere difesa e solo Spiderman può farlo. E il nostro Supereroe, pur con i suoi soliti superproblemi affettivi, economici e di autostima, si infila nuovamente la tuta e riparte.

Per uno che dal 1961 (proprio così) ha ridicolizzato nemici del calibro dell’Uomo Sabbia, l’Avvoltoio, Penguin, Killraven, Mysterio, Octopus e Lizard, il cattivo di turno potrebbe essere solo uno stuzzichino. Ma non sarà così: il rancore blu di Electro si unisce alla sua rabbia, la sua mente subisce un veloce sdoppiamento. Difficile lottare contro una super-schizofrenia che, implementata da superpoteri elettrici, conferisce una forza superdistruttiva che insidia presto anche il rapporto tra Peter e la sua ragazza. E per di più, nel corso della vicenda, Electro consegnerà la scena ad un avversario ancora più temibile, l’insidioso, inquietante e carismatico Harry Osborn/Goblin (Dane DeHaan, un bravo dagli occhi di felino), spietato traditore di quella ferrea amicizia che un tempo lo legava a Peter. Ed infine c’è la OsCorp, la onnipotente azienda tecnologica della città, che fa convergere tutte le storie del film in un crogiolo di misteri e complotti oscuri. Ne risulta un’orgia di scontri distruttivi, incidenti stradali, di battaglie aeree e urbane di ogni tipo; tante vite salvate e molte perse; Spiderman è messo a dura prova, spesso sta per soccombere, e l’abbraccio mortale del male supremo lo colpirà duramente. Meno male che, tra uno scontro e l’altro, Peter trova il tempo per raggiungere la sua Gwen.  

Ed è proprio in queste fasi, quando il bombardamento sonoro si attutisce (e lo spettatore respira), che si apprezzano pregevoli momenti di complicità affettiva che di fatto vivono al di là della fiction. Dai tempi della scuola, due piccole anime, Peter e Gwen, trovano rifugio in loro stessi e in quei preziosi momenti scaricano le loro angosce e ricaricano le loro energie. Deflagrazioni silenziose, ma avvertite più di quelle assordanti. La sofferta relazione tra i due è straordinariamente convincente. Qui nasce la verità, la verità alchimica dell’amore, e qui terminerà la verità per dare spazio al destino, senza più effetti o trucchi che tengano. Marc Webb, il regista, ha conferito davvero magia alla fusione e al distacco tra il tenero-gioioso Peter e la splendida-ardente Gwen. Qui sta, a nostro parere, come fu in parte anche nel primo episodio del reboot, il core del film, il messaggio che ad esso dà valenza.

Tutto il resto è una alluvione di effetti speciali e di scene mirabolanti, girate con assoluta maestria nella città di New York (Times Square ne viene esaltata). Il meccanismo narrativo è squisitamente cartoon. Tante acrobazie, tanta carne al fuoco. Nel macroscopico diluvio di pregevole action cui lo spettatore è sottoposto, nella saturazione di luci, suoni e colori, nelle eccezionali performance tridimensionali si avverte la mancanza di una storia convincente in quanto articolata e strutturata. Un eccessivo numero di microstorie non crea necessariamente una storia, così come un grande collage di disegni non crea necessariamente un bel quadro. Si è lontani, insomma, da quello sviluppo narrativo che aveva connotato lo Spider-man 2 della famosa trilogia. In The amazing spiderman 2 il castello di storie è poco coerente e la struttura narrativa è affrettata, in quanto nei passaggi tra commedia, dramma e tragedia è assente il mastice dell’elaborazione (non c’è, ad esempio, alcuna analisi della sofferenza del tradimento dell’ antica amicizia tra Peter e Harry).
Inevitabilmente il film talvolta deraglia nell’azione fine a se stessa, nella meccanicità e ripetitività degli effetti, buttando nel calderone dei 140 minuti una enorme minestrone di immagini a cui difetta però il sale della consistenza. E se alla fine ne uscirà un Peter più maturo e consapevole, per assurdo il tutto si conclude con una storia anche monca, preludio certamente della prossima lotta contro “i Sinistri Sei”; sviluppi annunciati che, si spera, dovrebbero risultare, non solo tecnicamente, ineccepibili.

Il film uscirà nelle sale italiane il 23 aprile.

sabato 19 aprile 2014

"Transcendence": se tiri troppo la corda, si spezza

di Luca Cardarelli

In un futuro non troppo lontano, il Dottor Will Caster (Johnny Depp) riesce a creare, in collaborazione con la moglie Evelyn (Rebecca Hall) e con il suo migliore amico Max (Paul Bettany), una macchina dotata di una così grande intelligenza artificiale da poter prendere coscienza di sé e vivere autonomamente. Questa creazione potrebbe dar vita ad una vera e propria rivoluzione in ambito scientifico, soprattutto medico. Si scatena così un dibattito etico-morale sulla bontà del progetto che porterebbe la tecnologia a sostituire completamente l'umanità, ma c'è chi di discutere non ha assolutamente intenzione: un gruppo di terroristi infatti osteggia strenuamente gli studi del Dottor Caster fino ad arrivare ad ucciderlo per fermarlo. Ottengono, però, l’effetto contrario: Il Dottor Caster rinasce sotto forma di "macchina", grazie anche alla moglie che mette online la sua coscienza e il suo sapere insieme con l'unità centrale dal macchinario da lui generato (non chiedete come), e si appresta a diventare una sorta di dio onnipotente che oltrepassa ogni limite nella sua ossessiva corsa al potere e, appunto, trascende. Si scatena una guerra, sia fisica che virtuale. 

Transcendence, film che segna l'esordio alla regia di Wally Pfister, conosciuto come direttore della fotografia dei nolaniani Inception e Il cavaliere oscuro, parte dall'idea, tutt'altro che originale, secondo cui le macchine e le intelligenze artificiali un giorno sostituiranno in tutto e per tutto quelle umane. Ma quando si ha un punto di partenza così trito e ritrito (2001 Odissea nello Spazio è stato uno dei primi film a parlarne, ma potremmo stilare una lista infinita di film sullo stesso argomento fino al recentissimo Her) o il film è uno di quelli classificabili tra le "pietre miliari della storia della cinematografia mondiale", o è un film di cui, appena scorso l'ultimo titolo di coda, già si fatica a tenere a mente il titolo. Ecco, possiamo tranquillamente relegare Trascendence in quest'ultima categoria: dimenticabile. 
Pur trattandosi di un film che si propone di analizzare in maniera molto nobile i pro e i contro di studi e scoperte molto attuali ed importanti per il progresso dell'intera umanità, lo fa molto superficialmente, distrattamente, sviluppando la narrazione in maniera molto confusionaria e non tenendo conto di dettagli sui quali da decenni si scatenano accesissimi dibattiti scientifici, lasciandoli morire nell'arco di una sequenza come se si trattasse di elementi poco importanti ai fini della storia. Inoltre il regista non deve aver tenuto conto del fatto che il pubblico in sala non sarebbe stato composto di soli ingegneri informatici o esperti nel campo delle nanotecnologie, e quindi molti passi del film sono risultati oscuri ai più, rendendo molto difficile la comprensione degli sviluppi della storia.  

Il cast, che vede in Johnny Depp, Rebecca Hall, Cillian Murphy e Morgan Freeman (questi ultimi, a dire la verità, un po’ troppo emarginati dalla storia) le sue punte di diamante, con un'interessante Kate Mara nella parte della terrorista (ma a fin di bene), non fa salire di tanto il livello complessivo della pellicola che, tuttavia, eccelle nelle scenografie futuristiche dei laboratori, alternate a quelle fatiscenti di Brightwood, cittadina semi-fantasma in mezzo al deserto dove è stata girata gran parte delle scene in esterna. Anche il finale, estremamente veloce, lascia trasparire una certa inesperienza del regista che ha pensato maggiormente alla forma che alla sostanza, infarcendo la pellicola di sequenze al rallenty e immagini naturalistiche piene di colori ma totalmente inutili per quanto riguarda le vicende narrate. La delusione aumenta quando si pensa alle potenzialità immense di questo sci-fi thriller, sprecate maldestramente da Wally Pfister (anche a causa di una sceneggiatura alquanto lacunosa), molto più abile a scegliere lenti e filtri ottici che a dirigere film.

Nei cinema dal 17 aprile.

giovedì 10 aprile 2014

"Nessuno mi pettina bene come il vento": al cinema la desolazione (della vita)

di Emanuela Andreocci

Già i titoli di testa, scritti in bianco su sfondo nero, che scorrono come una malinconica lista della spesa davanti agli occhi dello spettatore, dovevano metterci in guardia: Nessuno mi pettina bene come il vento, il nuovo lavoro di Peter Del Monte nei cinema dal 10 aprile, è un film potenzialmente profondo e interessante (non bello), ma che non regge, non risponde nè alle domande nè alle necessità dello spettatore e non arriva da nessuna parte se non ad una conclusione buonista sul finale, simbolo di apertura all'altro e al diverso che conclude in qualche modo la vicenda raccontata, ammesso che di conclusione si possa parlare.
D'altronde, come può un dramma incentrarsi su un paradosso, un episodio che, se non surreale e impossibile, è altamente improbabile (e anche alquanto fastidioso)? Arianna (Laura Morante) è una scrittrice che dopo la separazione dal marito ha lasciato Parigi per trasferirsi in un piccolo paese di mare dove la sua casa/studio le permette di osservare il mondo da lontano: vive quindi apparentemente tranquilla e lontana da tutto e tutti fino all'invadente arrivo di una giornalista con la figlia al seguito. Capiamo subito che c'è qualcosa che non va e che la bambina (Andreea Denisa Savin) ha dei problemi affettivi e familiari e, se in parte muovendoci da questo presupposto possiamo arrivare a capire la folle richiesta che fa alla scrittrice ("Posso rimanere qui?"), certamente non arriviamo a comprendere la ancora più folle risposta, affermativa dopo un tentennamento impercettibile.
Gea preferisce rimanere dalla scrittrice perchè considera la nonna un'estranea (Arianna invece, che ha appena conosciuto, cos'è?), non si sente accettata dalla nuova famiglia del padre (quando lo conosciamo, capiamo che ha ragione e che ha degli evidenti problemi "gestionali" anche lui) e soprattutto perchè sulla spiaggia, per inseguire il suo fedele cagnolino che era scappato, ha conosciuto Yuri (Jacopo Olmo Antinori), un ragazzo taciturno, difficile e accompagnato da amici non propriamente raccomandabili che Arianna non vuole che frequenti. 
La scrittrice e Gea, vivendo insieme, pian piano si concedono delle piccole confidenze, ma la bambina, quando non è controllata, osserva dalla finestra Yuri e il suo gruppo di amici che fumano e combinano danni nella piazzetta sotto casa o, peggio ancora, esce di nascosto per stare con loro (lui). La diffidenza di Arianna per i ragazzi che Gea vorrebbe frequentare assume varie forme: sfiducia, istinto materno di protezione per la bambina, paura che possa succederle qualcosa; Gea, più che innamorata, è profondamente attratta dal ragazzo, al quale è legata da una misteriosa affinità che aleggia nell'aria ma che non viene mai spiegata o mostrata in maniera più evidente.
Nessuno mi pettina bene come il vento è un film lento, che scorre inesorabile, grigio, desolante e desolato come il paese che fa da contorno, mettendo lo spettatore a disagio fin dall'inizio. Salviamo solo le interpretazioni delle due protagoniste ed il titolo, per il quale dobbiamo ringraziare Alda Merini.

mercoledì 9 aprile 2014

"Un matrimonio da favola" senza happy ending

di Emanuela Andreocci

La velocità con cui i Vanzina sfornano film è impressionante: sono passati esattamente 4 mesi da Sapore di te ed ecco che arriva nelle sale Un matrimonio da favola dove, tra i vari protagonisti, troviamo nuovamente Giorgio Pasotti. 
La storia, a raccontarla, è trita e ritrita: 20 anni dopo la maturità, cinque compagni di classe un tempo inseparabili si ritrovano al matrimonio di uno di loro: Daniele (Ricky Memphis), l'unico che sembra aver fatto carriera, sta per sposare Barbara (Andrea Osvart), la bellissima figlia di un banchiere (Teco Celio) che da capo diventerà presto suo suocero. Luciana (Stefania Rocca), l'ex bomber della squadra di calcio, arriva a Zurigo (l'elegante cornice prima del film e poi del matrimonio) in compagnia dell'invadente e inopportuno Fabio, il marito interpretato da Riccardo Rossi che a fatica sopporta; Giovanni (Emilio Solfrizzi) approfitta dell'occasione per farsi un weekend fuori con l'amante Sara (Ilaria Spada) piuttosto che con la moglie Paola (Paola Minaccioni); Alessandro (Giorgio Pasotti) decide di andare al matrimonio da solo per non dichiarare la propria omosessualità presentando agli amici il suo compagno Roberto (Luca Angeletti); anche Luca (Adriano Giannini) arriva non accompagnato: single e sciupafemmine incallito fin dai tempi della scuola, preferisce sveltine occasionali a rapporti duraturi.
Un cast corale, quindi, per la più classica commedia degli equivoci fatta di tradimenti, bugie, fraintendimenti e pallidi tentativi di soluzione. Diverse le risate regalate, soprattutto nella prima parte del film, grazie ad alcune semplici ma genuine gag, come quella che vede protagonista Giannini ad inizio pellicola o il piccolo visone, ma intrecci sviluppati solo superficialmente: si arriva allo scioglimento finale in maniera troppo approssimativa in un finale che ristabilisce un equilibrio di base ma senza happy ending, una conclusione a tarallucci e vino senza però il brio dell'alcol nè la dolcezza dei biscotti.  
Se le vicende sono scontate, prive di fantasia e di fascino nei confronti dello spettatore che fin dall'inizio sa dove il film vuole andare a parare, positivi sono invece i personaggi che si trovano a confrontarsi con un mondo nuovo, in apparenza estremamente chic e impeccabile, ma che invece non è così diverso dal loro. Ilaria Spada è la ragazza (bellissima) della porta accanto, una commessa che sogna l'amore e che vola alto ma parla romanaccio; Riccardo Rossi è la presenza imbarazzante che però regala sorrisi e a tratti funziona da collante nonostante sia un "esterno" rispetto al resto del gruppo; Pasotti, con una gestualità delicata ma onnipresente, è adorabile nella sua interpretazione di militare omosessuale. 
A completare un quadro decisamente ampio, variegato e ben assortito di personalità e caratteri, troviamo la simpaticissima coppia formata da Roberta Fiorentini, che interpreta la madre dello sposo, e Max Tortora nei panni dello zio, ladro di professione, che strappa risate fin dalla sua prima comparsa: il comico romano che interpreta il parente dalla mano lesta e dalla voragine nello stomaco rappresenta, in versione esagerata, l'italiano medio che non riesce a trattenersi in nessuna occasione.
Tutti gli attori chiamati a dare il proprio contributo lo fanno in maniera coerente e pertinente, ma non riescono a colmare la lacuna a livello di plot di cui abbiamo già parlato: lo spettatore non solo non si affeziona a nessuno dei personaggi, ma non si chiede neanche come potranno concludersi le varie vicende, in parte perchè già lo sa, in parte perchè ne resta fuori, completamente disinteressato.
Molto carini i titoli di testa che, sulle note della canzone Mi mi mi, presentano i protagonisti come fossero delle partecipazioni di nozze.  

"Oculus": oltre lo specchio

di Luca Zanovello

Le premesse antecedenti la realizzazione di Oculus sono di quelle che restituiscono un po’ di romanticismo al cinema, e un pizzico di speranza in più ai film makers indipendenti che cercano fortuna: il regista Mike Flanagan aveva esordito nel 2005 con un omonimo cortometraggio che, nonostante il budget minimo (1500 dollari) si portò a casa vari riconoscimenti e, soprattutto, attribuì grande credibilità al suo autore. Tanto che quando Flanagan lanciò una campagna di crowdfunding per produrre il suo primo lungometraggio (Absentia, 2010), raccolse quasi il doppio della cifra richiesta e, successivamente, venne notato dal vicepresidente della Intrepid Pictures, che volle a tutti i costi incontrare il regista. Da qui, l’idea di sviluppare un film partendo dal cortometraggio Oculus.

Tutto comincia da un passato traumatico: quello della famiglia Russell, o di ciò che ne rimane. Quando la polizia giunge alla loro abitazione, trova il piccolo Tim con una pistola in mano e, a terra, entrambi i genitori morti. Dopo l’arresto e lunghi anni in un istituto psichiatrico per minori, Tim (Brenton Thwaites, La Bella Addormentata) torna libero e viene ospitato dalla sorella Kaylie (Karen Gillan, Dr Who), che aveva condiviso con lui la tragica nottata di molti anni prima e che, al contrario di Tim, è convinta che dietro a quelle morti ci siano degli avvenimenti soprannaturali scatenati da un antico e prezioso specchio custodito dai Russell. Kaylie è determinata a immergersi in un incubo infinito pur di arrivare alla verità e riscattare l’innocenza di Tim. Inutile dirlo, verrà abbondantemente accontentata.

Flanagan, nativo di Salem, tiene fede alle proprie origini orrorifiche e architetta un solido thriller paranormale che attinge da Amityville Horror (1979, Stuart Rosenberg) e progenie ma che sa anche sorprendere con qualche dettaglio spiazzante e originale.
Se il Male e l’oggetto che lo sprigiona non sono niente di nuovo, va riconosciuto ad Oculus un grande effetto claustrofobico, mostrando l’oscurità e ciò che essa contiene senza mai estrarre i due personaggi protagonisti (gli ormai ventenni Tim e Kaylie) dalla tetra abitazione che “ospita” lo specchio. L’ottima cura fotografica e degli effetti visivi, insieme all’impeccabile regia, valorizza i (pochi) momenti insanguinati; attorno, lunghe sequenze interlocutorie che ricostruiscono il mistero ed accrescono la suspense grazie anche a qualche buffa trovata da commedia nera. Il montaggio (dello stesso Flanagan) fa la spola, a volte in maniera un po’ schizofrenica, tra i macabri eventi passati ed il presente in cui i due credibilissimi protagonisti si avvicinano alla resa dei conti col Maligno. È proprio l’ottima gestione dell’inesorabile crescendo di manifestazioni soprannaturali e di segnali sinistri il valore aggiunto di Oculus, che non crolla mai sotto i colpi dei clichés e ogni tanto inquieta davvero. Niente porte che scricchiolano e che si chiudono da sole, insomma, grazie al cielo. Sintetizzando la tradizione classica della ghost story e l’approccio tecnologico del found footage, l’immaginario di Oculus restituisce linfa a un sottogenere sfruttatissimo e, dopo il delirante Insidious di James Wan (ma senza tutte quelle sbandate), regala soddisfazioni a chi - ancora nel 2014 - crede e cede al fascino delle care, vecchie presenze infestanti. Occhio al finale, tra i migliori degli ultimi tempi.

Dal 10 aprile al cinema.



mercoledì 2 aprile 2014

"Nottetempo": un viaggio verso ciò che non si può avere

di Emanuela Andreocci

Scelta difficile e ambiziosa quella effettuata da Francesco Prisco con Nottetempo, al cinema dal 3 aprile: il noir non è un genere per niente facile e poco italiano, anche se la mente vola subito al recente e perfettamente riuscito Il capitale umano di Virzì; inoltre l'impresa è ancora più ardua per un esordiente che, pur avendo alle spalle spot e cortometraggi, si trova per la prima volta a confrontarsi con un film per il grande schermo. 

Durante la visione della pellicola si avverte tutta la fatica di idee potenzialmente buone ma incompiute portate in scena da personaggi altrettanto indeterminati e acerbi, protagonisti di una storia ostile, non accogliente nei confronti del pubblico che ne rimase sempre fuori. 
Certamente lo spettatore non riesce ad affezionarsi ad Assia (Nina Torresi) che, viva per miracolo, è disposta ad inseguire dovunque il suo salvatore di cui da tempo è innamorata senza essersi mai dichiarata. Dove l'ha conosciuto? Quando? Perchè? Il suo personaggio è ingenuo e ottimista ma, sebbene questo dovrebbe forse rappresentare un punto di forza o una sorta di speranza, risulta fastidioso e in contrasto con un mondo che non le appartiene. Purtroppo (o per fortuna, questione di punti di vista) quel sorriso e quegli occhi da principessa innamorata sono stati puntati troppo su Marco Cesaroni [I Cesaroni 5ndrper poter riuscire ad immaginarla in un altro contesto
Matteo (Giorgio Pasotti), il salvatore in questione, è un tipo duro, austero e tormentato, diverso da tutti i personaggi del ragazzo della porta accanto bello, dolce e simpatico cui ci ha sempre abituati. Nell'interpretazione risulta perfettamente credibile, ma la sua storia, pur non facendo acqua da tutte le parti, trova una fine senza averci reso partecipi dell'inizio, va in prigione senza esser passato dal via. 
Infine c'è Enrico (un ottimo Gianfelice Imparato), un cabarettista che, perso ingaggio e sorriso, si mette in viaggio apparentemente senza una destinazione precisa, ma la cui strada si incrocerà presto con quella di Assia. 

Un incidente, la velocità, la vendetta ed un passato che si palesa senza presentarsi veramente, visioni sfocate attraverso vetri appannati che scandiscono la narrazione riportando la mente di Assia al tragico momento avvenuto nottetempo in cui ha rischiato di morire. Ma è sopravvissuta, e non è l'unica: tutti i personaggi del film in qualche modo sono dei sopravvissuti, sopravvissuti alle difficoltà della vita, alle scelte effettuate (difficile, se non impossibile, tornare indietro o rimediare), al destino beffardo con cui bisogna sempre fare i conti. E poi c'è il rugby, "un gioco bestiale giocato da gentiluomini", ed una foto che ad inizio film "risveglia" Matteo e lo spinge a partire immediatamente verso Bolzano. 
In Nottetempo ogni personaggio desidera qualcosa che non può avere e si incammina in un viaggio per l'Italia ideato ipoteticamente come un puzzle da costruire pian piano. Purtroppo, però, ci si accorge molto presto che mancano diversi tasselli, e non solo quelli della cornice. 

"Nymph()maniac": tanto fumo, poco arrosto... ma molta carne!

di Luca Cardarelli

Premessa: la versione del nuovo film di Lars Von Trier arrivata in Italia è stata censurata in maniera alquanto sostanziosa, per un totale di 90 minuti di pellicola eliminati tra volume I e II. 
Presentato al Festival di Berlino lo scorso febbraio, Nymphomaniac rappresenta l'essenza della follia visionaria nonchè della depressione cronica che pare attanagliare l'autore di opere quali Melancholia, AntiChrist e Dogville. Un film diviso, gioco forza, in due volumi da due ore l'uno, alla Kill Bill, per intenderci, il primo dei quali uscirà il 3 aprile. 
Durante le prime due ore assistiamo a 5 capitoli della vita di Joe (Charlotte Gainsbourg al presente, Stacy Martin da giovane), donna con evidenti problemi mentali, che viene trovata a terra in un vicolo di città con il viso tumefatto da un gentile ed anziano signore (Stellan Skarsgard) il quale la soccorre e la porta a casa con sè per offrirle ristoro. Il tutto avviene nei modi e nei tempi "classici" cui Von Trier ci ha abituati: molto, molto lentamente, quasi al rallentatore. 

Il modus narrativo del regista danese per questa sua ultima, scandalosa creazione vede l'incedere per parallelismi: l'anziano e la donna conversano uno parlando di pesca con la mosca e l'altra raccontando le sue esperienze sessuali iniziate in giovanissima età. E andando avanti con il racconto la pesca si trasforma in etologia, poi in matematica e ancora successivamente in musica. Una sorta di "quadrivio" parallelo alle fantasie sessuali raccontate da Joe che l'hanno poi portata a diventare ciò che è: una ninfomane. 
Scene, alcune, che non lasciano molto all'immaginazione, in cui assistiamo alla "prima volta" di Joe con Jerome (Shia Leboeuf) alleggerita da Von Trier mediante la visualizzazione di numeri a grandezza schermo per sottolineare, strappando risate al pubblico, quante volte costui l'abbia penetrata davanti e dietro. Von trier ricorre spesso a questi stratagemmi per alleviare un po' di tensione emotiva che altrimenti rischierebbe di schiacciare lo spettatore come sotto una pressa da sfasciacarrozze. La depressione è il fil rouge di tutto il film, insieme alla follia di una ragazza che gareggia con l'amica del cuore a "chi si fa più uomini sul treno in corsa" (in palio c’è un golosissimo sacchetto di cioccolatini!) percorrendo le carrozze del convoglio nello stesso modo in cui dei pescatori camminano sulla riva di un fiume in cerca del punto più pescoso.

Durante le due ore del Volume I, nonostante l’edulcorazione portata dalla severa censura cui è stato sottoposto il film, vediamo di tutto: fellatio, cunnilingus, amplessi in posizioni canoniche e nonJoe si definisce una persona cattiva che rifiuta l'amore definendolo il più basso dei sentimenti perchè fondato sulle bugie che due persone si raccontano per far piacere l'una all'altra: è capace di abbordare in treno uno sconosciuto che sta tornando dalla moglie, sedurlo e "svuotarlo" in una rapida sessione di sesso orale (viene sottolineato il fatto che l’uomo si stesse "tenendo" da giorni al preciso scopo di ingravidare la donna), non ha problemi nel far mollare la compagna (Uma Thurman) ed i 3 figli ad un uomo che potrebbe benissimo essere suo padre ed infine si permette "attimi di spensieratezza" con il manutentore dell'ospedale in cui è ricoverato il genitore moribondo (Christian Slater). 
Un film assurdo, non lineare, che alterna le classiche immagini panoramiche di cieli stellati alla Von Trier a primissimi piani statici e piatti. La colonna sonora è quasi assente, salvo titoli di testa e di coda animati dall'heavy metal dei teutonici Rammstein e qualche scena addolcita da Lo Schiaccianoci di Tchaikovskij, già usato in passato da Stanley Kubrick nel suo ultimo capolavoro Eyes wide shut

La cosa che più disturba di Nymphomaniac non è tanto la pornografia di alcune scene, ma il fatto che il continuo autoaccusarsi della donna, consapevole della propria vita peccaminosa e immorale, sia costantemente bilanciato dall'indulgenza del vecchio che la giustifica adducendo motivazioni etico-scientifiche (per la verità un po’ strampalate) e che potremmo definire un “accondiscendente diavolo tentatore” (il tema satanico, tra l'altro, è molto presente nel film e viene evocato anche attraverso il tritono suonato al pianoforte dalla protagonista).

Per avere un quadro più definito di questo monumentale film a cavallo tra l'hardcore e il puro porno, contaminato da eccessi di documentarismo e introspezione psicologica (un vero e proprio pugno nello stomaco), dobbiamo comunque necessariamente  aspettare la visione del Volume II.