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mercoledì 30 ottobre 2013

"Captain Phillips - Attacco in mare aperto": il superbo film di Greengrass approda nei cinema.


di Emanuela Andreocci

Due uomini, due comandanti, il mare e la necessità di sopravvivere. Tutto questo e molto altro troviamo nel nuovo, superbo film di Paul Greengrass Captain Phillips - Attacco in mare aperto, basato sul sequestro della nave americana Maersk Alabama avvenuto nel 2009 da parte di quattro pirati Somali. 
Tom Hanks, in stato di grazia e probabilmente anche di Oscar, è Rich Phillips, il comandante della nave contenente aiuti umanitari destinati all'Africa: è un uomo esperto e riflessivo, sa gestire al meglio non solo il suo mezzo, ma anche e soprattutto il suo equipaggio; Barkhad Abi è Muse, l'altro comandante, quello che si getta all'inseguimento degli americani con un piccolo scafo, due motori di potenza ridotta e tre uomini armati al seguito. Sono le due facce della stessa medaglia chiamata globalizzazione, rappresentano chi ha tutto ed in abbondanza, tanto che può darne agli altri, e chi invece non ha nulla se non ciò di cui è costretto ad appropriarsi con la forza. Entrambi i comandanti portano avanti quella che è la loro missione abituale: Phillips consegna, Muse prende. Per i due si tratta di lavoro, ma si trasforma gradualmente in lotta per la sopravvivenza. Per Muse, in verità, lo è sempre stato: senza ricami, senza spreco di parole, senza destare pietà, il pirata Somalo dal sogno americano fa capire la sua vita verso la fine del film in tre, forse quattro battute.
Paul Greengrass è l'invisibile ma sempre presente terzo comandante: abile traghettatore di animi e sentimenti, cattura l'attenzione dello spettatore introducendolo all'incontro/scontro tra le due carismatiche figure. Con numerosi stacchi di una macchina frenetica, a mano, in continuo movimento, racconta i preparativi della partenza sulla terra ferma, ed in mare mostra il rapporto all'interno dei due differenti equipaggi e le due diverse rotte destinate, inevitabilmente, ad incrociarsi. Decisivo ed emblematico è il momento in cui i due comandanti si osservano, a distanza, attraverso il binocolo: si guardano, si vedono e capiscono di doversi affrontare. Ma questo è solo l'inizio, il film di Greengrass continua a crescere in un climax incessante, che non si esaurisce con l'assalto dei pirati alla Maersk Alabama, e neanche col rapimento del capitano Phillips. 
Pochi personaggi per la maggior parte della pellicola, un'ambientazione che varia di poco, il nulla intorno se non lo sterminato mare, eppure lo spettatore non riesce a distogliere lo sguardo dallo schermo, sincronizza i suoi battiti con quelli del comandante in pericolo. Il regista è in grado di dominare sapientemente le azioni fisiche e le reazioni psicologiche dei suoi personaggi, mostra il viso dei protagonisti da vicino ed attraverso i loro occhi arriva nel profondo del loro animo dove, nonostante le continue rassicurazioni di Muse che ad intervalli regolari (si) ripete che andrà tutto bene, risiedono tutte le paure.
In Captain Phillips - Attacco in mare aperto le doti investigative e la maestria nel thriller di Greengrass si sposano alla perfezione creando un prodotto che, senza esagerazioni, tende alla perfezione.
Al cinema dal 31 ottobre.    

martedì 29 ottobre 2013

"Ender's Game": la fine dei giochi.

di Emanuela Andreocci

Ender's game è il gioco di Ender, il protagonista del nuovo film di Gavin Hood interpretato da Asa Butterfield nei cinema dal 30 ottobre, ma dopo aver visto la pellicola, un po' per assonanza, un po' per contenuti, non è possibile non pensare ad un traduzione alternativa: la fine dei giochi. Sia per il ragazzino, costretto a crescere prima del previsto, sia per gli spettatori, vittime di una pellicola dal buon potenziale inespresso che lascia con l'amaro in bocca e un senso di indifferenza nei confronti di quanto accaduto. 
In un mondo futuristico che è già sopravvissuto grazie al coraggio di Mazer Rackham (interpretato da Sir Ben Kingsley) ad una dura battaglia contro i Formics (le creature aliene nemiche della terra) gli umani sono pronti a respingere un nuovo attacco grazie alla scuola di guerra che da anni recluta e forma ragazzi preparandoli ad una battaglia decisiva. Il protagonista, ovviamente, eccelle in tutto e su tutti: voluto fortemente dal colonnello Hyrum Graff (un Harrison Ford di cui è difficile dimenticare il taglio di capelli), riesce dove il fratello troppo violento e la sorella troppo debole avevano fallito. Lo scopo della scuola è insegnare ai ragazzi a combattere tramite un laser game a gravità zero: il primo impatto visivo con il campo di allenamento è superbo (la "palestra" è una sfera con pareti di vetro trasparente in mezzo allo spazio), ma il gioco non presenta nessun elemento accattivante. 
Sebbene quasi tutto il film si svolga all'interno di una stazione spaziale e la terra venga quasi dimenticata, sono assai numerosi i cliché della vita militare: le lotte intestine con i compagni  invidiosi della innata predisposizione di Ender all'eccellenza e al comando, la presa di posizione dei superiori che assegnano dure punizioni e che sembrano voler mantenere il distacco con gli allievi, gli atti di bullismo/nonnismo all'ordine del giorno e gli avanzamenti di grado. Troviamo, ovviamente, anche l'altro risvolto della medaglia: solidarietà tra affini e gioco di squadra. 
La figura di Ender è sicuramente interessante: poco più di un bambino, porta sulle sue spalle il peso di una missione troppo pesante per la sua età ma direttamente proporzionata al suo talento. Il giovane attore, già protagonista di Hugo Cabret, si cimenta con successo in un ruolo non facile: un buono che ogni tanto deve fare i conti con il suo lato oscuro. In qualche modo racchiude in sé le caratteristiche del colonnello Graff e del Maggiore Gwen Anderson, la responsabile del benessere psicologico dei giovani soldati interpretata da Viola Davis. Per lei, a differenza del personaggio di Ford, non sempre il fine giustifica i mezzi: mentre Graff sembra dimenticarsene o, ancor peggio, non curarsene, la donna è sempre consapevole del fatto che le loro azioni e insegnamenti influenzeranno per sempre le vite dei loro sottoposti.
Il film è tratto dall'acclamato omonimo romanzo di Orson Scott Card del 1985. Non avendo letto il fortunato libro, possiamo solo immaginare, o sperare, che la trasposizione non gli renda appieno giustizia. 

domenica 20 ottobre 2013

"Il quinto potere" di Bill Condon è Julian Assange.

di Emanuela Andreocci

I tempi cambiano ma l'esigenza di raccontarli e immortalarli rimane sempre la stessa: nel 1941 Orson Welles mostrava la forza dei mezzi di stampa nel capolavoro Citizen Kane (tradotto in Italia come Quarto potere), nel 1976 Network di Sidney Lumet (noto nel nostro paese come Il quinto potere) metteva alla berlina la televisione ed oggi, nel 2013, The fifth estate di Bill Condon (tradotto anch'esso come Il quinto potere) porta sul grande schermo la storia di WikiLeaks e del suo fondatore Julian Assange (interpretato da Benedict Cumberbatch). Non si vuole certamente fare un confronto tra i film citati, ma ragionare su come in ogni epoca sia importante, quasi necessario, riflettere sui media che fanno così tanto parte della nostra vita fino ad arrivare addirittura a gestirla e comprometterla. Emblematica è la sequenza iniziale: un excursus sull'evoluzione dei vari mezzi di comunicazione e su alcuni avvenimenti che  hanno segnato la storia moderna, un inizio sincopato con zoom in e out che portano in continuazione dentro e fuori la notizia.
Tutti conoscono WikiLeaks: è nata nel 2006 come organizzazione no-profit con l'obiettivo di pubblicare notizie e documenti segreti per far conoscere a tutti ciò che accade realmente nel mondo e che i mezzi istituzionali non raccontano; nel 2010, a seguito della più grande fuga di informazioni riservate di tutti i tempi, è diventata un caso diplomatico ed un problema di livello mondiale, e così lo stesso Assange. Il film di Bill Condon, sceneggiato da Josh Singer e basato sui libri Inside WikiLeaks di Daniel Domscheit-Berg (il collega di Assange interpretato nel film da Daniel Brühl, il Lauda di Rush) e WikiLeaks dei giornalisti di The Guardian David Leigh e Luke Harding, non solo racconta l'ascesa della temuta organizzazione, ma si/ci interroga sul concetto di moralità, trasparenza e ideale. 
"Non è un documentario" afferma il regista "Rappresenta solo una parte e un'interpretazione della storia: non avevamo intenzione di dar vita ad un film contro o in favore di WikiLeaks, ma piuttosto volevamo mostrare come e perché l'organizzazione sia riuscita a fare cose straordinarie ed esplorare alcune delle maggiori problematiche che ha messo in luce, mentre intanto portiamo il pubblico a vivere un viaggio emozionante, assieme ad un personaggio affascinante della nostra epoca. Abbiamo deciso di far vedere diversi punti di vista, di porre tante questioni e poi di lasciare che ognuno arrivi alla sua conclusioni personale". 
Lo spettatore può infatti cercare di farsi largo tra le problematiche evidenziate attraverso il pensiero razionale di Berg, allo stesso tempo primo ammiratore e primo detrattore del lavoro di Assange, quello dei diplomatici statunitensi, che devono fare i conti con le conseguenze delle scottanti rivelazioni pubblicate, e quello dei giornalisti legati al leader di WikiLeaks che proprio grazie a lui hanno avuto importanti esclusive da prima pagina. E poi, ovviamente, abbiamo il pensiero e il punto di vista di Julian Assange: come possiamo definirlo? Un sognatore? Un hacker? Un rivoluzionario dai capelli bianchi che insegue degli ideali per rendere il mondo migliore? Un folle dall'infanzia difficile che rischia di compromettere vite pur di non cedere al compromesso? È proprio questo il punto cui vuole arrivare il film, senza fornire risposte, ed è lo stesso che logora dall'interno il rapporto Berg-Assange fino a comprometterlo definitivamente: fin dove è lecito spingersi pur di non tradire il proprio ideale? C'è un confine da non superare? L'eccellente interpretazione di Cumberbatch, colonna portante della pellicola, ci mostra un uomo determinato ma instabile, pieno di ideali encomiabili ma senza freni e limiti, un essere solitario che si presta ad una duplice, antitetica interpretazione: eroe o criminale? 
Tra stringhe e codici, tweet e chat, tasti che digitano freneticamente sulle tastiere e computer che devono essere sempre pronti a scomparire, la metafora ricorrente scelta per raccontare  WikiLeaks è più tradizionale, ma non per questo meno incisiva: un ufficio anonimo e sterminato, con un numero illimitato di scrivanie e pc dietro i quali è seduto sempre e solo Julian Assange.  
Il quinto potere uscirà nei nostri cinema il 24 ottobre. Merita di essere visto.
                                                                                                                                                                                                                                                                                                                       

martedì 15 ottobre 2013

"Una piccola impresa meridionale": la briosa sinfonia firmata Rocco Papaleo


di Emanuela Andreocci

Quando lo spettatore esce dalla sala col sorriso, lo stesso che ha mantenuto durante tutto il film, vuol dire che il prodotto ha fatto centro: "La piccola impresa meridionale" di Rocco Papaleo, al cinema dal 17 ottobre, è promossa a pieni voti. Tratta dall' omonimo suo primo romanzo, in libreria dalla settimana scorsa, e sceneggiata insieme a Valter Lupo, la pellicola racconta l'"esilio" di Costantino (interpretato dallo stesso regista e autore) che, dismesse le vesti sacerdotali, è fortemente spinto dalla Mamma Stella (una severa Giuliana Lojodice nei panni di una donna di paese tutta d'un pezzo, rigida e bigotta) a isolarsi in un vecchio faro abbandonato, proprietà di famiglia. Ci troviamo al sud: il paese è piccolo e la gente mormora, Dio non voglia che si crei uno scandalo...! La signora, d'altronde, è già provata da un altro "fattaccio": sua figlia Rosa Maria (Claudia Potenza) ha improvvisamente abbandonato il marito Arturo (un convincente Riccardo Scamarcio) per scappare con un amante misterioso. 
L'esilio di quello che tutti continuano a chiamare "padre" Costantino, però, dura poco ed il malandato faro inizia a popolarsi ed animarsi. La prima ad arrivare è la ex top escort Magnolia (una scoppiettante Barbora Bobulova), sorella di Valbona (la badante di Mamma Stella interpretata da Sarah Felberbaum) e subito a seguire anche Arturo chiede asilo al fu sacerdote. Al trio già ben nutrito (riepiloghiamo: un ex prete, un ex prostituta ed un ex marito) si aggiungono gli improbabili membri della ancora più improbabile società a responsabilità limitatissima Meridionale Ristrutturazioni srls (nel ruolo di Raffaele, Mela e Gennaro detto Jennifer troviamo rispettivamente Giovanni e Mela Esposito e Giampiero Schiano).  
Dal piccolo intervento per riparare un'infiltrazione del tetto ai lavori di ristrutturazione del faro e delle vite dei protagonisti dell'impresa (tutti ne entrano a far parte) il passo è breve. Il film di Papaleo offre uno spaccato leggero e spensierato della vita nelle sue forme più variegate e del modo in cui i rapporti possono ricucirsi, basta rimboccarsi le maniche. Quello che in Basilicata coast to coast era rappresentato dal viaggio, in Una piccola impresa meridionale è costituito dal faro: non bisogna necessariamente muoversi per trovare qualcosa, ci si può anche fermare ad ammirare il mare, panorama obbligato ed immagine ricorrente e rasserenante di tutta la pellicola. 
La musica, come nel primo film, torna ad essere grande protagonista: persino la pioggia viene scandita in 5/4, il tempo del jazz. La colonna sonora contiene le felici composizioni di Rita Marcotulli e le canzoni di Rocco Papaleo (il sodalizio viene quindi confermato), le apprezzabili performance vocali di Scamarcio e della Bobulova ed il brano "Dove cadono i fulmini" della cantautrice pugliese Erica Mou. Reduce dai fasti sanremesi, troviamo con piacere il tormentone "Torna a casa foca". 
Interpreti scelti ad hoc che sorprendono gradevolmente, tempi comici precisi ed efficaci, stereotipi trattati con eleganza ed un accenno felliniano che non guasta: il film di Papaleo è così delicato e ben equilibrato che gli si può certamente perdonare qualche eccesso di retorica e ridondanza cui verso la fine tende. 
Una piccola stonatura, all'interno di una briosa sinfonia, è concessa. 

lunedì 14 ottobre 2013

"The Walking Dead 4": pretendiamo (molto) di più.


di Emanuela Andreocci

La quarta stagione di The Walking Dead era un evento talmente speciale che richiedeva una preparazione altrettanto speciale e per l'occasione anche Oscar (il logo) è apparso "zombizzato" su facebook e twitter. Adesso, se potessi, mi piacerebbe trasformarlo nuovamente, ma nell'Urlo di Munch (avete presente?) per gridare a tutti il mio disappunto. No, no e un'altra volta no: proprio non ci siamo! Abbiamo (ho) aspettato troppo la quarta stagione per accontentarmi di quanto appena visto, l'attesa  non può essere direttamente proporzionale alla delusione.
Voglio commentare l'episodio da semplice spettatrice, senza andare alla ricerca di dettagli tecnici o stilistici di cui discutere: la prima puntata non doveva andare così. Sono certa, sia ben chiaro, che gran parte del disappunto nasca dalla problematica tempo: se fossero state trasmesse le prime due puntate, invece di una sola (da leggere con la "o" chiusa o aperta, fate vobis), certamente la storia ne avrebbe giovato e lo spettatore probabilmente si sarebbe tranquillizzato al riguardo, ma questa non può e non deve essere una scusante. 
Ci sono stati proposti tempi lunghi e dilatati e dialoghi privi di sostanza, al limite dell'inutilità. Tutti aspettiamo un'evoluzione nella storia tra Carol e Daryl, ma certamente non avverrà con le patetiche battute a suon di "Amore" che lei gli ha rivolto. Non mi sembrava li avessimo lasciati così...! Probabilmente è stata a lezione da Tyreese, visto che abbiamo ritrovato anche lui impegnato a tessere dolci relazioni con una new entry. Rick, dal canto suo, fortunatamente sembra essersi completamente ripreso: perché allora oppone tutta quella resistenza per portare con sè una pistola in perlustrazione? Non sembra un'idea così assurda... E potremmo continuare: Glen e Maggie quasi non si vedono, Beth reagisce alla morte del ragazzo in maniera alquanto matura, quasi stoica, il buon Hershel dispensa consigli (pochi) e coltiva piante (tante). Insomma, ritroviamo tutti e nessuno. 
La pioggia di Zombie e l'incontro di Rick con una donna - spettro e specchio di come sarebbe potuto diventare - sono delle buone idee, ma da sole non bastano a tenere in piedi una puntata che doveva coinvolgere e mantenere il livello di una terza stagione superlativa: siamo stati abituati male e adesso pretendiamo molto di più. (S)fortunatamente abbiamo un'altra settimana per digerire quanto accaduto e per prepararci al meglio (o al peggio, questione di punti di vista): sono fermamente convinta che con i prossimi episodi torneremo ai fasti degli anni precedenti. Non dobbiamo dimenticarci che stiamo parlando di The Walking Dead: errare è umano, perseverare... è da vaganti!

domenica 13 ottobre 2013

"American Horror Story: Coven" - Tremate: le streghe son tornate!

di Emanuela Andreocci

Con American Horror Story: Coven Ryan Murphy (creatore anche di Nip/Tuck e Glee) e Brad Falchuk continuano a fare centro. La loro forza sta nell'attingere al classico e più che vasto repertorio dell'horror per farlo proprio: innovandolo e dotandolo di caratteristiche uniche e rare, danno vita ad un prodotto che esula dagli schemi, di immediato impatto e coinvolgimento.
Una delle idee di maggior successo è sicuramente quella di utilizzare gli stessi attori: in questo modo il pubblico non si affeziona ai singoli personaggi (con i quali comunque crea un inevitabile rapporto che però si esaurisce all'interno della singola stagione), ma ai loro interpreti. Non tornano tutti, certo, e non sempre, ma ci sono degli elementi che sono intoccabili. Regina indiscussa è Jessica Lange che in Murder House nei panni di Constance, ma soprattutto in Asylum in quelli di Suor Jude, ha regalato delle interpretazioni... da brivido, giusto per rimanere in tema. In questa terza stagione è affiancata da un colosso quale Kathy Bates, per cui sarà difficile, ma certamente non impossibile, mantenere lo scettro. 
Ritroviamo Sarah Paulson (la giornalista Lana Winters in Asylum), Lily Rabe (che ricordiamo per il ruolo di Suor Mary Eunice) in quello che, per ora, sembra essere solo un cameo, Jamie Brewer (Adelaide in Murder House) e Frances Conroy (la governante Moira della prima stagione e la Morte nella seconda); incontriamo di nuovo con piacere anche la coppia Taissa Farmiga - Evan Peters: dopo aver recitato insieme in Murder House (lei nei panni di Violet Harmon e lui in quelli di Tate Langdon), i due si ritrovano fianco a fianco in Coven (ricordiamo però che, mentre la Farmiga "saltava il turno" di Asylum, Peters era presente nei panni di Kit Walker). Il loro nuovo incontro è stranamente romantico e strizza l'occhio allo spettatore più attento che certamente riconoscerà il rimando a quello avvenuto tra Claire Danes e Leonardo di Caprio in Romeo+Juliet di Baz Luhrmann. Assenti all'appello Zachary Quinto e Dylan McDermott, finora sempre presenti. 
Dopo un ottimo inizio con Murder House (la casa infestata è certamente un ever green del genere) e l’altissimo livello raggiunto con Asylum (l’ospedale psichiatrico si è dimostrato il luogo ideale per ambientare storie torbide e inquietanti), potrebbe a primo acchito non sembrare molto originale proseguire la serie dedicando una terza stagione alle streghe. L’argomento, infatti, è innegabilmente trito e ritrito (il personaggio di Taissa Farmiga, per esempio, al momento incarna lo stereotipo della strega che uccide i propri partner durante l’amplesso e sembra essere uscito dal recente Nymphs), ma se la Suprema interpretata da Jessica Lange gestisce insieme alla figlia Cordelia (Sarah Paulson) un collegio per ragazze "speciali" e dissotterra Madame LaLurie (interpretata dall'attesissima new entry Kathy Bates), la dama della metà dell'800 famosa per le sue pozioni di sangue e organi umani per ottenere l'immortalità, siamo certi che non ne rimarremo delusi. 
Pronti per la nuova magia di American Horror Story?

martedì 8 ottobre 2013

"The Fosters": una serie accogliente

di Emanuela Andreocci

Bella sorpresa quella avuta con la prima puntata di The Fosters: la serie televisiva creata da Peter Paige e Bradley Bredeweg e trasmessa sul canale ABC Family da giugno 2013 è un teen drama  innovativo che affronta problemi importanti ed attuali in maniera attenta e delicata, senza rinunciare alle caratteristiche proprie del genere cui appartiene. I legami omosessuali, la convivenza di più credo e razze sotto lo stesso tetto, la violenza domestica e il triste destino dei minori lasciati allo sbando sono alcuni dei temi trattati dalla serie, ai quali poi vanno ad aggiungersi dinamiche lavorative e relazioni affettive più classiche e sempreverdi che non fanno mai male e certamente alleggeriscono il prodotto.
Già il titolo è indicativo di un'idea sicuramente efficace: si gioca infatti sul cognome della famiglia, i Foster per l'appunto, e il significato che tale parola ha in inglese. Qualsiasi accezione si scelga (come verbo significa "sostenere", "allevare", come aggettivo "adottivo" e come sostantivo "tutela"), si adatta perfettamente alla famiglia in questione, formata da "due mamme" diverse per carattere e origini (Stef Foster interpretata da Teri Polo e Lena Adams da Sherri Saum) alle prese con il loro lavoro (la prima è una poliziotta, la seconda un'insegnate) e con la loro famiglia allargata: Brandon, il figlio biologico che Stef ha avuto da Mike, Jesus e Mariana, due gemelli adottati e, infine, Callie, appena uscita dal riformatorio, e suo fratello Jude, sottratto alle grinfie di un padre violento. 
Il rapporto tra le due donne, al momento, tende all'assurdo per via dei loro comportamenti "da pubblicità Mulino Bianco" (cosa che in effetti stona con la frenesia della colazione in cucina e gli sguardi di iniziale diffidenza nei confronti dei nuovi arrivati da parte degli altri ragazzi, elementi certamente più verosimili): traboccano di comprensione e amore, dando l'idea di un imperante buonismo che però, nonostante sia assolutamente eccessivo, non stona né con la storia né con i problemi affrontati. 
A casa Foster le incomprensioni si superano con un bacio e si accoglie chiunque a braccia aperte, anche lo spettatore. 

lunedì 7 ottobre 2013

Tanta carne sul fuoco per "Hannibal"!

di Emanuela Andreocci

Ammetto di essere un po' in ritardo con Hannibal: la serie creata da Bryan Fuller per il network NBC è approdata sui nostri schermi domestici il 12 settembre. Chi la sta seguendo potrà certamente confermare, oppure smentire, le mie impressioni sul primo episodio.
Will Graham (interpretato da Hugh Dancy), il talentuoso profiler cui l'FBI ricorre per alcuni casi impossibili, è in bilico tra genio e follia, possiede un'abilità che compromette il suo "stare al mondo" ed il rapporto con il prossimo: non solo ricostruisce le scene del crimine immaginando i delitti avvenuti, ma vede e vive i crimini, li sperimenta in prima persona. Se per intuizione scopre che la serie di omicidi su cui Jack Crawford (Laurence Fishburne) gli ha chiesto di lavorare è opera di un cannibale, per volere del caso si trova a lavorare fianco a fianco proprio con il dottor Hannibal Lecter (Madds Mikkelsen). Lo spettatore capisce subito che qualcosa non va: chi non ha mai visto il film interpretato da Anthony Hopkins? In questo modo la storia è ancora più avvincente e la suspance ancora più efficace: nel momento in cui il pubblico conosce qualcosa di più rispetto ai personaggi è costretto a non abbassare la guardia perché sa che, prima o poi, quel qualcosa succederà e si arriverà ad un punto di svolta. A dir la verità, quella in cui la serie colloca il pubblico è una posizione strana, ambigua: privilegiata per quanto concerne il rapporto e la conoscenza con Lecter, assolutamente marginale nel momento in cui vengono introdotti gli altri personaggi. Lo spettatore nel secondo caso si sente trascurato: rimanendo all'interno del genere psico-thriller, infatti, in qualsiasi pilot che si rispetti i personaggi vengono abitualmente presentati in modo che il pubblico li conosca superficialmente fin da subito, ma abbia allo stesso tempo alcune informazioni che alludano al loro passato, alla loro psicologia e ai legami che li mettono in relazione tra di loro. Insomma, di solito vengono forniti dei piccoli tasselli che aiutano ed invogliano lo spettatore a completare il puzzle. In Hannibal tutto questo non c'è e la storia progredisce omettendo dei passaggi che per chi è seduto davanti la televisione sono fondamentali: come può Graham permettere a Crawford un simile atteggiamento? Chi è la donna che ne vuole preservare la salute? Perchè Lecter può permettersi di andare a trovarlo a casa e di preparargli addirittura la colazione? Che ruolo ha il medico legale? E, a questo punto, che ruolo ha il povero spettatore?
Nel primo episodio si individuano elementi grafici e sonori d'impatto che connotano l'opera fin da subito, evidenziando la ricerca di un "marchio di fabbrica" che possa rendere il prodotto diverso dagli altri e immediatamente riconoscibile: un battito di un cuore in sottofondo,  l'uso costante della soggettiva nelle visioni, flashback e pensieri del protagonista, il rallenty e le sequenze a ritroso per ricostruire, da ciò che si vede, ciò che è stato, la cura del dettaglio e del colore sono sicuramente strumenti vincenti.
Che altro dire? E' sicuramente una serie con tanta carne sul fuoco...!

domenica 6 ottobre 2013

"Sleepy Hollow": convince anche il secondo episodio.

di Emanuela Andreocci

Già nella recensione del primo episodio abbiamo tessuto le lodi di Tom Milson, l'attore che interpreta Ichabod Crane, ma dopo aver visto la seconda puntata è necessario tornare a parlarne: sarà per la sua faccia da bravo ragazzo, per i suoi occhietti furbi e per il suo accento così british, ma protagonista più appropriato certamente non si poteva trovare. Il modo in cui si muove con destrezza nei luoghi che riconosce spiazza, mentre la difficoltà che incontra per aprire un rubinetto o per capire il funzionamento di una lampadina intenerisce; gli si crede ciecamente e non lo si mette mai in discussione nonostante l'assurdità delle sue affermazioni e il modo anacronistico in cui vengono poste.
Divertente e curioso il legame che si instaura con la determinata tenente Mills, la cui situazione continua ad essere quantomeno complicata: i poliziotti che avevano visto il cavaliere senza testa ritrattano la loro testimonianza e il suo superiore Frank Irving (Orlando Jones) da una parte comincia a darle un po' più di libertà di movimento, ma dall'altra cerca di "indirizzarla" verso un comportamento corretto perché non può permettere che nel suo dipartimento si spargano voci assurde che compromettano il suo operato. La poliziotta è quindi in una morsa, incastrata tra quello che prevede il suo ruolo ufficiale e quello invece che la sua coscienza le impone di fare, e si troverà ben presto, più di quanto possa immaginare, a fare i conti con il suo doloroso passato che sembra guadagnare sempre di più terreno.
Il secondo episodio di Sleepy Hollow conferma, quindi, tutti gli ottimi presupposti del pilot: conosciamo un po' di più i personaggi (che, nel frattempo, si conoscono di più anche tra di loro), si aggiungono elementi che vanno a delineare meglio la figura dell'inquietante cavaliere senza testa (compare, infatti, il Diavolo, si scopre che ci sono streghe buone e streghe cattive e che i quattro Cavalieri dell'Apocalisse - Conquista, Guerra, Carestia e Morte - saranno preceduti da altri spiriti malvagi che apriranno loro la strada), si continuano a incastrare sapientemente flashback e visioni e ci si interroga sulla natura e funzione di alcuni personaggi che fanno di nuovo la loro comparsa.  Horror e fantasy, azione e drama vanno a braccetto: quello che sulla carta potrebbe sembrare addirittura "troppo", sullo schermo televisivo dà vita ad immagini avvincenti ed emozionanti, che scorrono piacevolmente e che certamente invogliano a proseguire nella visione. 
Rinnoviamo il monito: attenzione a non perdere la testa...!

sabato 5 ottobre 2013

Serie tv Usa: chi sale e chi scende

Nell'altalena dei palinsesti televisivi Usa, c'è chi sale e chi scende.
Lucky 7, l'adattamento del britannico The syndacate, non ha avuto la stessa fortuna del predecessore: due stagioni per il primo in ordine cronologico, due soli episodi per il secondo. I pessimi ascolti del dramedy incentrato sulla storia di sette dipendenti di una stazione di servizio nel Queens che vincono alla lotteria, ha fatto chiudere i battenti alla serie ben prima del previsto: dal rating di 1,3 già assolutamente scarso della première, si è passati allo 0,7 dell'episodio successivo, numeri che hanno costretto la ABC ad interromperne la messa in onda senza pensarci due volte. Il vuoto sarà colmato dall'emittente con le repliche di Scandal. 
Procede a gonfie vele, invece, Sleepy Hollow: miglior debutto di una serie tv sul canale Fox in autunno dal 2006 con il 3,5 di rating, si è aggiudicata il rinnovo per una seconda stagione composta da 13 episodi. Il network ha annunciato anche la ventiseiesima stagione dei Simpson che, secondo il presidente di Fox Kevin Reilly, "non è solo lo show più lungo della storia della tv, ma anche una delle più grandi sit-com dei nostri tempi".
La fortuna sorride anche a The Blacklist: la serie targata NBC che ha esordito due settimane fa con il 3,6 di rating ha grandi potenzialità: come ha affermato anche il capo di NBC Enterteinment Jennifer Salke "i tanti volti di Red Reddington sembrano affascinare il pubblico [...] Questa serie eccezionale continuerà a fare di NBC una grande destinazione nella serata del lunedì".

venerdì 4 ottobre 2013

"C'è qualche cosa in te"... che non va: l'ingenuità di Enrico Montesano.

Mi dispiace ammetterlo, ma in C'è qualche cosa in te, il nuovo spettacolo di Enrico Montesano in scena dal 3 Ottobre al Teatro Brancaccio di Roma, c'è qualcosa, e anche di più, che non va. 
La storia, di per sè, potrebbe essere carina: Nando, interpretato dal comico romano che certamente non ha bisogno di presentazioni, è il custode di un deposito di costumi e oggetti scenici di un teatro destinato a diventare un centro commerciale. Accanto a lui, un micromondo di personaggi simpatici che di tanto in tanto compaiono e lo mettono in contatto con il mondo reale e attuale: Delia (interpretata da Ylenia Oliviero), una giovane ragazza "impunita" con cui instaura un  rapporto affettuoso, l'avvocato incaricato di seguire il progetto (Michele Enrico Montesano), il ragazzo tuttofare del bar (Marco Valerio, Montesano anche lui), la squadra di operai ed i "vestiti" che prendono forma e vita grazie ad un corpo di ballo composto da una ventina di elementi tra uomini e donne. 
Quello che potrebbe e vorrebbe essere un omaggio alla grande commedia musicale italiana e ai suoi protagonisti e musicisti (grazie anche alle musiche, sia originali che arrangiate, di Renato Serio), si perde nei meandri di una trama spezzettata che troppo spesso ed in maniera troppo prolungata lascia spazio e tempo ai monologhi di Montesano, soprattutto nel primo atto. Si (sor)ride, ovvio, ma ci si distrae dalla linea narrativa, che in questo modo va ad indebolirsi fino a diventare un sostegno appena abbozzato e assolutamente non stabile: mentre le varie imitazioni si inseriscono abbastanza bene all'interno della storia (per lo meno sono giustificate), le battute sull'attualità, la crisi e la politica, per quanto divertenti, diventano inopportune nel contesto in cui sono inserite. Peccato che un attore del calibro di Montesano si sia concesso una simile ingenuità, non decidendo fin dall'inizio il fronte su cui combattere: musical o one man show
Chissà qual è stato il giudizio di Enzo Garinei, presente in sala...

giovedì 3 ottobre 2013

Con "Masters of Sex" va in onda il piacere. Sarà reciproco?

Impresa ardita quella compiuta da John Madden: il regista di Shakespeare in love, infatti, ha portato sullo schermo televisivo Masters of Sex, la serie prodotta da Showtime (in onda sull'omonimo canale dal 29 settembre e presentata ieri sera al Roma) basata sulla biografia del Dottor Williams Masters e della sua assistente Virginia Johnson scritta da Thomas Maier. 
I due personaggi, interpretati rispettivamente da Michael Sheen e Lizzy Caplan, sono realmente esistiti e sono considerati due pionieri della sessualità. Siamo in un fedelmente ricostruito 1956 ed il dottor Masters (il cui cognome si presta evidentemente al gioco di parole del titolo della biografia, lo stesso mantenuto dalla serie) è un ginecologo di fama mondiale che salva le donne donando loro speranza ma allo stesso tempo conduce studi non ufficialmente autorizzati, ai limiti del voyeurismo se non della perversione. Quali sono le reazioni fisiche e chimiche che avvengono nel corpo umano prima, durante e dopo un rapporto sessuale? Vale lo stesso sia per gli uomini che per le donne? C'è un modo per osservare scientificamente nel dettaglio tutto quello che avviene? 
Si parla di scienza e di medicina, è vero, ma l'alone che si portano dietro i due protagonisti, le loro storie familiari e il rapporto con l'amore e con il sesso ha un che di morboso fin dall'inizio, se non sbagliato. In principio si tende a giustificare il fatto che il dottore paghi prostitute per "studiarle mentre lavorano" in modo da registrare dati importanti, si apprezza di meno, ma lo si tollera, il fatto che vengano poi coinvolte altre persone, cavie reclutate volontariamente "per la scienza", ma è certamente insopportabile che, sebbene in forma assolutamente professionale ed apparentemente distaccata, Masters proponga alla sua assistente di sperimentare loro stessi il metodo.
Dopo aver visto il pilot non sembra ci siano aspetti rilevanti che meritino di essere approfonditi dal punto di vista tecnico; la storia, invece, è sicuramente interessante e nuova, bisogna però vedere come evolve: che succederà con l'aumentare degli esperimenti e dei soggetti interessati? 
Con la serie va in onda il piacere, ma sarà reciproco?

"The Michael J. Fox Show": una bella scommessa.

Ritorno in tv come protagonista per Michael J. Fox: l'attore a cui nel 1991 è stato diagnosticato il morbo di parkinson e che dal 2000, a seguito di un aggravamento, è stato costretto a ritirarsi dalle scene e da Spin City, che gli valse tre Golden Globe, interpreta nella nuova serie che porta il suo nome l'anchorman Mike Henry, debilitato dalla sua stessa malattia ma, come lui, pieno di energia e pronto a rientrare al lavoro, grazie anche all'incoraggiamento del suo capo Harris Green (Wendell Pierce).
Presentato ieri sera al RomaFictionFest (in America sul canale NBC sono stati trasmessi i primi due episodi il 26 settembre), il pilot di The Michael J. Fox Show ci mostra sicuramente un prodotto nuovo, su cui però è necessario interrogarsi. Tolto l'impatto iniziale (è bello rivedere il protagonista di Ritorno al Futuro, ma allo stesso tempo è fortemente toccante constatare come la malattia lo abbia cambiato), ci si concentra sulla trama: lavoro e famiglia basteranno a sostenere i 22 episodi di cui è composta la prima stagione? Riusciranno gli autori Sam Laybourne (Cougar Town) e Will Gluck a trovare qualcosa che vada oltre quel mix di stima, rispetto e un po' di pietà che si porta dietro il protagonista Henry? 
In famiglia qualcosa di diverso l'abbiamo già visto. Ha una moglie (interpretata da Betsy Brandt), tre figli e una sorella che, superato evidentemente il dolore e il trauma iniziale (sappiamo che sono passati cinque anni da quando ha lasciato il lavoro), lo incoraggiano ad uscire e a lasciare le mura domestiche: la continua e forzata convivenza è diventata, a dir loro, un tantino pesante.
Il progetto è una bella scommessa, ma deve essere portato avanti in modo intelligente affinché il pubblico possa affezionarsi a Mike Henry senza vedervi dietro sempre e solo Michael J. Fox. 

mercoledì 2 ottobre 2013

"Rush" non si vede, si vive.

Quando si esce da una proiezione con gli occhi lucidi, i brividi sulla schiena e l'adrenalina ancora in circolo, significa non solo che il film è pienamente riuscito, ma che si è di fronte  ad un capolavoro. Con Rush non è possibile utilizzare un termine diverso: il film di Ron Howard (premio Oscar per il toccante A Beautiful Mind) è un concentrato di tutto quello che ogni spettatore cerca andando al cinema, ed è proprio al cinema che merita di essere visto grazie alla fotografia prestigiosa e dettagliata di Anthony Dod Mantle (anche lui premio Oscar con The millionaire) che rende ogni particolare, dalle foglie a bordo pista alla pioggia che scende scrosciante, un'opera d'arte. 
La leggendaria rivalità tra i due piloti di Formula1 Niki Lauda (interpretato da Daniel Brühl) e James Hunt (Chris Hemsworth) ormai fa parte della storia e non è necessario soffermarsi sul gravissimo incidente che coinvolse il pilota austriaco portandolo ad un passo dalla morte e che gli lasciò il volto sfigurato. È necessario invece riflettere sul modo in cui tutto viene narrato: incontro dopo incontro, gara dopo gara, la sapiente regia di Ron Howard ci introduce sempre di più nella realtà e nel pensiero dei protagonisti, ci porta per mano a conoscere il loro modo di intendere sia la vita che la morte. Hunt corre per sentirsi vivo, Lauda perché non sa fare altro, il primo è  bello come un dio (non a caso l’attore che lo interpreta è lo stesso di Thor), un buon comunicatore, un viveur che sa come godersi la vita ma non i valori più importanti che la contraddistinguono, il secondo è un ragazzo normale (anche se viene definito “un topo” dal suo avversario), integerrimo, disciplinato ma allo stesso tempo borioso e sprezzante di tutto e tutti e quindi impopolare (o popolarmente antipatico). Sullo schermo viene quindi raccontata in maniera avvincente e toccante non solo la storia di due campioni, ma quella di due uomini e delle loro vite, così contrastanti eppure destinate a incontrarsi, scontrarsi e confrontarsi incessantemente, in pista e fuori.
Ciliegina sulla torta: la somiglianza fisica tra gli attori scelti per la parte ed i piloti che interpretano va al di là di ogni aspettativa.
Rush è un concentrato di emozioni, un film non da vedere ma da vivere.

Con "The Newsroom" bisogna stare sul pezzo


È meglio non chiedere a Will McAvoy (Jeff Daniels) di essere serio e di non rispondere in maniera politicamente corretta alle domande cui vorrete sottoporlo perché quello che sentirete non vi piacerà affatto. Dopo aver sciorinato tutti i motivi e i primati per cui l'America non è il miglior Paese al mondo, al suo rientro in redazione l'anchorman del notiziario "News Night" in onda sul canale ACN trova una sgradita sorpresa: la maggior parte del suo team, compreso il Produttore Esecutivo Don (Thomas Sadoski, ospite del RomaFictionFest), l'ha abbandonato accettando di lavorare ad un programma in onda in una diversa fascia oraria.  
Intendiamoci, Will non è affezionato alle persone (non sa neanche come si chiamino la maggior parte di loro), ma si trova spiazzato dalla notizia e va su tutte le furie soprattutto nell'apprendere che Charlie Skinner, il presidente della divisone news della ACN interpretato da Sam Waterston con cui, si capisce, ha un ottimo rapporto (è l'unico con cui si relaziona in un rapporto paritario), ha scelto il suo nuovo P.E. senza interpellarlo: McAvoy non ha assolutamente nessuna intenzione di lavorare con la determinata MacKenzie McHale (Emily Mortimer). Si capisce fin da subito che i due sono uniti da un passato burrascoso, se non doloroso. 
Diversi i punti di forza del prodotto ideato da Aaron Sorkin che, lo ricordiamo anche se non serve, non è certo un novellino (basti pensare alla sua sceneggiatura di The Social Network). 
I dialoghi, sicuramente, la fanno da padrone: ben scritti, serrati e mordaci, incastonati in botte e risposte che divertono, incuriosiscono e delineano al meglio i personaggi, interpretati, a loro volta, da attori che ne vestono i panni in maniera impeccabile, formando una squadra con caratteri e vissuti (personali e lavorativi) diversi che ben si integrano tra loro. Jeff Daniels, recente vincitore dell'Emmy per la migliore interpretazione maschile in una serie drammatica proprio con questo ruolo, è un anchorman burbero, presuntuoso e schietto, un grande professionista che però non ha il dono del sapersi rapportare con il prossimo. Nonostante il suo caratteraccio (in alcuni casi ci si domanda se "ci è o ci fa") lo spettatore entra subito in relazione con lui e con il suo modo di fare che, in un modo o nell'altro, conquista (anche se il suo vecchio team, evidentemente, la pensa in maniera differente!). 
Il montaggio veloce e snello ci rende pienamente partecipi della frenesia di una redazione che deve stare sempre sulla notizia, comunicandola prima e meglio degli altri. Peccato che, da questo punto di vista, il RomaFictionFest non abbia gli stessi tempi di News Night: la serie, infatti, verrà presentata stasera alle 20:30 in anteprima in Sala Petrassi e verrà trasmessa su Rai 3 dal 17 ottobre, ma in America è uscita il 24 giugno 2012 e sono andate in onda già le prime due stagioni... Quando si dice "stare sul pezzo"!

martedì 1 ottobre 2013

"Sleepy Hollow": una serie con la testa sulle spalle!

Appuntamento da non perdere con Sleepy Hollow: la nuova serie, in onda negli Usa dal 16 settembre sul canale Fox, verrà presentata al RomaFictionFest stasera in Sala Petrassi subito dopo il primo episodio della terza stagione di Homeland.  
Il pilot è irresistibile, cattura immediatamente l'attenzione e desta curiosità con personaggi che conquistano fin da subito, scenografie azzeccate, storia allettante e tasselli sparsi qua e là da mettere insieme nel corso dei vari episodi. Si capisce fin da subito che è una serie con la testa sulle spalle...!
Nel dire Sleepy Hollow è ovviamente difficile non tornare con la mente al 1999 e all'omonimo film del geniale Tim Burton, ma dobbiamo distaccarcene. Il protagonista ovviamente è sempre Ichabod Crane, ma l'attore che nella serie sostituisce il personaggio che fu di Johnny Depp è Tom Milson, inglese, classe '82. Impossibile non affezionarcisi subito: volto pulito, fresco, simpatico e intelligente, bello e charmant (chi più ne ha più ne metta!), Ichabod si ritrova in un mondo che non gli appartiene (la Sleepy Hollow del XXI secolo) e che osserva come un bambino che scopre tutto per la prima volta. Non c'erano macchine, telecamere o Starbucks ai tempi in cui combatteva per il "generale Washington"! Insieme a lui, purtroppo, un'altra figura compare in quella che una volta era una tranquilla cittadina: un cavaliere senza testa (decapitato proprio da Crane circa 250 anni prima) ha ucciso lo sceriffo davanti gli occhi della sua collega Abbie Mills (Nicole Beharie). I due erano molto legati e la morte dell'uomo, suo mentore, farà aprire gli occhi alla ragazza: non solo rimarrà a Sleepy Hollow invece di trasferirsi a Quantico per entrare nell'FBI, ma farà di tutto per catturare l'assassino e aiutare l'innocente Crane, cautelativamente arrestato in quanto sospetto. E' difficile ammettere l'esistenza di un criminale senza testa, ma quando anche altri agenti lo vedranno con i propri occhi tutto sarà più facile e si potrà fare luce su tanti avvenimenti, incluso un episodio oscuro in cui è stata coinvolta la poliziotta da adolescente. Nessuno sembrava averle creduto, ma alcuni appunti ritrovati dello sceriffo le dimostreranno il contrario, mettendola in relazione con Ichabod: i due hanno una missione da compiere ed erano destinati ad incontrarsi...
Serie da brivido, attenzione a non perdere la testa!