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sabato 31 agosto 2013

Non c'è pace in "Bethlehem"


Al termine della proiezione in sala Darsena qualcuno ha gridato "Sionista!", eppure Bethlehem, l'opera prima dell'israeliano Yuval Adler, come lui stesso ha avuto modo di confermare durante l'incontro con il pubblico, racconta semplicemente la realtà del suo popolo e di quello palestinese attraverso i diversi punti di vista dei personaggi maschili. Sanfur è un giovane combattuto tra quelle che sono le sue origini (il fratello Ibrahim è leader del movimento palestinese Al Aqsa) e i suoi affetti e doveri (fa da informatore a Razi, agente dei servizi segreti israeliani che lo considera come un figlio). La realtà è già difficile di per sé e nel conflitto arabo-israeliano non c'è posto per i doppiogiochisti, per chi, seppur in buona fede, cerca di far contente entrambe le fazioni. Per ogni scelta c'è una conseguenza da pagare e Sanfur dovrà fare i conti con la propria coscienza e l'ambiente che lo circonda. Il suo sguardo è carico di emozioni contrastanti: rabbia, rancore, desiderio di riscatto e di dimostrare il proprio valore. Non c'è paura, mai. É alla ricerca del suo posto in un mondo in cui nessuno ha ragione e nessuno ha torto, in cui è sempre lecito uccidere. Sanfur è solo uno fra tanti: quanti come lui si trovano coinvolti in conflitti che non li riguardano direttamente e sono costretti a prendere decisioni difficili che determineranno la loro intera esistenza? Non si danno giudizi, non si cerca un colpevole: si racconta solo quel che è. Non c'è neanche bisogno di espedienti particolari o scelte tecniche ricercate: la narrazione seguita dal regista é lineare e discretamente esaustiva, sebbene forse avrebbe potuto trattare determinati punti cardine in maniera più approfondita, in modo da delinere ancor meglio i caratteri dei personaggi e i loro legami. Non tutto, infatti, si capisce perfettamente, ma non ce n'è bisogno: le dinamiche e i moventi sono chiari e valgono per tutti. Ció che è evidente è che siamo difronte ad una triste realtà dove non ci sono vincitori, ma solo vinti.

venerdì 30 agosto 2013

"Wolfskinder" - Homo homini lupus

Unione Sovietica, anno 1946. I grandi occhi di Hans ci portano alla scoperta di un mondo duro e crudele, devastato dagli orrori e miserie della guerra. Il fratellino Fritzchen, sebbene più piccolo, sembra essersi già abituato e si muove con apparente disinvoltura, affrontando i problemi, compresa la morte della madre, con tranquillità, praticità ed estremo raziocinio. "Ditemi i vostri nomi": con queste parole la donna in fin di vita esorta i figli a non dimenticare mai le proprie origini, a non tradire mai il proprio io più profondo. La strada verso la fattoria lituana indicata dalla madre è lunga ed il cammino difficile, costellato di incontri e di tristi abbandoni. Altri ragazzini si trovano nella stessa situazione di Hans e Fritzchen, senza famiglia, senza amici, anime tristi e sole che finchè possono si confortano e si fanno forza a vicenda, consapevoli però che la sopravvivenza del singolo è l'unico obiettivo da perseguire senza esitazioni.  Gli adulti che incontrano durante il loro percorso sono emblema di un mondo addirittura peggiore, in cui non si fa niente per niente e nulla è dovuto, neanche un piatto di zucca,  un mondo in cui non è possibile farsi un bagno ristoratore senza la paura che qualcosa, o qualcuno, lo turbi. Nessuna differenza tra gli spietati poliziotti o i fattori senza cuore. In un mondo in cui homo homini lupus, è difficile ricordarsi di essere ancora bambini. In un mondo crudele, che ti cambia, la salvezza è ricordarsi sempre il proprio nome.

"Via Castellana Bandiera" ovvero La Stasi di Emma Dante‏

Prometteva bene inizialmente Via Castellana Bandiera, film di esordio dietro la macchina da presa per l'autrice e regista teatrale palermitana Emma Dante, tratto dal suo omonimo romanzo, peccato che nel raccontare la sua città si sia dimenticata di fornire le dovute giustificazioni ad una narrazione che si perde nella stasi delle protagoniste femminili e nella trama che non evolve. Due famiglie a confronto: una "allargata", formata da pescatori e popolani, l'altra "diversa", composta da Rosa (la stessa regista) e Clara (Alba Rohrwacher) tornate a Palermo per un matrimonio.L'insofferenza di Rosa per la sua cittá natale e i problemi del suo rapporto con la madre e con Clara, che come un bambina capricciosa non fa altro che disegnare, portano il personaggio interpretato dalla regista a sfogarsi, percorrendo una stretta stradina, la stessa del titolo, a tutto gas. Poi l'intoppo: nel verso contrario arriva la macchina guidata dall'anziana Samira (Elena Cotta), donna divisa tra il dolore per la figlia morta, l'assoggettamento al volere del genero e l'amore per il nipote, l'unico con il quale ha un vero e proprio rapporto affettivo. La situazione è chiara: in due non si passa e una macchina deve lasciare spazio all'altra, ma le due donne, per due motivi diversi e solo parzialmente comprensibili, decidono di non cedere. Ed ecco la parodia della vita del paese, dove la novità diventa subito argomento di discussione e pettegolezzo, in questo caso anche di scomesse. Buona l'idea dell'opposizione dei due personaggi in un surreale western tutto al femminile, dove si può, anzi, si deve rinunciare al cibo ma non al richiamo di madre natura, ma sfuggono le motivazioni che spingono le due donne all'assurdità dei loro comportamenti. In particolar modo il personaggio di Samira resta misterioso e ambiguo: donna forte e decisa che sa cosa fare della propria vita o povera pazza comandata a bacchetta dal genero? Si continua ad aspettare un'evoluzione che non arriva mai.

giovedì 22 agosto 2013

Editoriale ovvero "Benvenuti a theOscarface!"

Se vi trovate nel mio blog, e state leggendo questo post introduttivo, ci sono solo due spiegazioni plausibili: o siete miei amici, e vi ringrazio per questo, oppure siete stati incuriositi dal nome, e vi ringrazio ugualmente, forse anche di più. 
Perchè "theOscarface"? Il riferimento al noto film diretto da De Palma è ovvio, ma c'è dell'altro. Le facce da oscar (si sa che nell'inglese italianizzato la "s" del plurale non serve!) non sono solamente quelle degli attori hollywoodiani che tutti conoscono e ammirano, ma sono quelle che fa ognuno di noi davanti ad uno schermo televisivo, al cinema o a teatro: le nostre espressioni indicano il grado di partecipazione e il livello di gradimento rispetto al prodotto cui ci siamo accostati. 
Qualcuno potrà certamente pensare che non è una grande idea al giorno di oggi aprire un blog (e ancor meno originale è farlo per parlare di intrattenimento!) e che non bisogna essere neanche dei grandi esperti per poter dare la propria opinione su argomenti tanto accessibili e fruibili da tutti. Non posso contestare un pensiero così razionale, ma posso spiegarvi che quello che mi ha portato a cominciare quest'avventura è tutto tranne che razionale, è un'esigenza che nasce dal profondo e che ho cercato di tenere a bada per anni, accontentandomi di quel poco che mi veniva concesso da altri. Ma se le riviste chiudono e le redazioni che resistono sono al completo, c'è un modo per porre fine anche al mio matto bisogno di comunicare le mie impressioni sul "mio" mondo? Posso porre un limite, chiudendola come un rubinetto, alla mia voglia di scrivere e di rendere gli altri partecipi di quello che penso? La risposta già la sapete. 
Siate clementi: sono alle prime armi con questo mondo (gestire un blog non è come inviare semplicemente un articolo ad una rivista), e devo ritagliarmi il tempo per seguirlo e farlo crescere, sperando che vada avanti e che, anche e soprattutto grazie al vostro aiuto, possa arricchirsi di nuove idee e contenuti.
Io ci metto la mia faccia (da Oscar!) e tutta la mia passione... voi spero i vostri occhi e commenti!

Buon inizio a tutti!
Gin