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sabato 30 gennaio 2016

“L’abbiamo fatta grossa”: risate assicurate con la coppia Verdone – Albanese

di Silvia Sottile

Carlo Verdone, nella sua lunga carriera cinematografica ricca di successi, ha dato a volte delle sterzate, dei cambi di direzione rispetto ai suoi prodotti abituali e, come lui stesso ci ha riferito in sede di conferenza stampa, questo è proprio quello che è accaduto con L’abbiamo fatta grossa. Fin dalla fase di scrittura, infatti, il soggetto è stato pensato per una coppia al maschile: stop alle tematiche familiari tipiche dei suoi ultimi film per dare spazio a qualcosa di più libero e fantasioso. Quello che viene fuori è una sorta di noir in chiave comica con un pizzico di analisi e critica sociale che non manca mai nei film dell’attore e regista romano.

Yuri Pelagatti (Antonio Albanese) è un attore di teatro che, traumatizzato dalla separazione, non riesce più a ricordare le battute in scena e rimane quindi disoccupato. Arturo Merlino (Carlo Verdone) è un investigatore squattrinato che vive a casa della vecchia zia vedova (Virginia Da Brescia) e si occupa addirittura di recuperare gatti. Yuri assume Arturo per avere le prove dell’infedeltà della moglie (Clotilde Sabatino) ma per errore i due entrano in possesso di una misteriosa valigetta contenente un milione di euro! Naturalmente questo innescherà una serie di guai e rocambolesche avventure, divertenti siparietti, momenti esilaranti, fino ad un imprevedibile finale con uno sguardo attento e preciso ai vizi e alle corruzioni del nostro paese. 
Nel cast anche l’esordiente Anna Kasyan (nel ruolo di Lena), straordinaria cantante lirica armena, con un’inaspettata vena comica. Da segnalare anche il simpatico cameo del regista Giuliano Montaldo nel ruolo del Generale.

La comicità di questo film nasce più dalle situazioni che si vengono a creare che non da gag vere e proprie e questo grazie alla scrittura precisa e soprattutto all’incredibile, immediato ed evidente affiatamento tra Verdone e Albanese. La trama in fondo è semplice ma viene sorretta al meglio dal modo in cui i due si muovono e dialogano sullo schermo, dai tempi comici perfetti e dal ritmo dinamico che ne consegue. Pur non avendo mai lavorato insieme si nota una grande affinità tra i due attori sia nel modo di porsi, sia nel tipo di comicità. L’impressione è che si compensino a vicenda ed emerge anche un sano rispetto reciproco, infatti non c’è un netto predominio dell’uno sull’altro. La commedia, tra appostamenti, fughe e travestimenti, si rivela leggera ma esilarante e va dato merito a Verdone di inserire sempre, in un modo o in un altro, col suo solito sguardo attento, un accenno di critica sociale con una punta di amara ironia.

Altro elemento vincente è indubbiamente dato dalla scelta delle location. La pellicola, ambientata a Roma, ha dato spazio a zone della città poco viste al cinema ma comunque ricche di fascino e che meritano di essere valorizzate, come ad esempio il quartiere Castrense, il Nomentano, l’Aurelio, il Trionfale, alcuni scorci di Monteverde Vecchio. Spiccano anche il pasoliniano Caffè Tevere  e il meraviglioso Teatro di Villa Torlonia. La fotografia, ad opera di Arnaldo Catinari, lavora nella stessa direzione: infatti, su precisa indicazione di Verdone, non ci sono botte di colore né elementi troppo sgargianti ma si è cercato di dare una certa uniformità e pacatezza nei toni ed il risultato dà ragione con un effetto visivo fluido e in linea con i luoghi e le vicende narrate.

L’abbiamo fatta grossa, prodotto da Aurelio e Luigi De Laurentiis e distribuito da Filmauro in 850 sale a partire dal 28 gennaio, si rivela un esperimento riuscito e potrebbe diventare un grande successo di pubblico grazie a due comici molto amati e ad una buona qualità del prodotto. Di sicuro si ride.



lunedì 25 gennaio 2016

“Joy”: Jennifer Lawrence protagonista di una favola moderna

di Silvia Sottile

Joy si ispira alla vita di Joy Mangano, la donna americana che inventò il Miracle Mop (una sorta di mocio) fino alla costruzione di un impero imprenditoriale che sopravvive da decenni. Il regista David O. Russell, facendo suo il motto “squadra che vince non si cambia”, ricompone per la terza volta il cast di successo de Il Lato postivo – Silver Linings Playbook e American Hustle – L’apparenza inganna: Jennifer Lawrence, Bradley Cooper e Robert De Niro. 

Joy (Jennifer Lawrence) ha mostrato fin da bambina intelligenza, inventiva ed immaginazione ma ha dovuto ben presto mettere da parte i sogni per occuparsi della sua problematica famiglia: l’anziana nonna (che poi è colei che racconta la storia), la madre (soap opera dipendente), la sorellastra che le mette i bastoni tra le ruote, i figli, l’ex-marito nullafacente che vive ancora sotto lo stesso tetto (Édgar Ramírez) e il padre irresponsabile (Robert De Niro) con la nuova compagna (Isabella Rossellini). Nel momento di maggiore disperazione, quando tutto sembra crollarle addosso, la donna trova la forza di reagire: inventa, realizza e successivamente pubblicizza in tv un mocio miracoloso che le apre (dopo altre peripezie) le porte del successo, aiutata da un produttore televisivo (Bradley Cooper).

Nonostante il banale e forzato espediente di far raccontare le vicende con una voce fuori campo quasi come si trattasse di una favola vera e propria, il film parte bene, con un buon ritmo: i personaggi grotteschi, in aggiunta alle scene della soap opera in tv, danno quel tocco di humour che non guasta. Ma qualcosa si perde per strada, manca continuità, e gli stessi aspetti che inizialmente sembravano interessanti danneggiano il risultato finale quando vengono esasperati. Il messaggio principale, ovvero la determinazione di una donna che deve lottare contro tutto e tutti per ottenere ciò che le spetta, è indubbiamente molto positivo e ci dipinge un’eroina dei nostri giorni che ce la fa solo grazie alle sue forze, al suo coraggio e alla sua caparbietà. Però la sceneggiatura contorta (quando invece la storia si sarebbe potuta sviluppare in modo molto lineare), alcuni stacchi incomprensibili nel montaggio, la mancanza di suspense in momenti cruciali in opposizione ad eccessiva enfasi in quelli trascurabili stonano parecchio, dando sempre l’impressione che manchi qualcosa. 

I personaggi di contorno rimangono simpatiche figure bidimensionali, eccessivamente caratterizzate ma poco sviluppate. La Rossellini surclassa De Niro, troppo poco lo spazio concesso a Bradley Cooper. Invece è tutto incentrato sulla protagonista: proprio come il suo personaggio regge sulle sue spalle il peso della sua famiglia (che oltretutto spesso le rema contro), così Jennifer Lawrence regge su di sé il peso del film. Sembra che tutto sia stato pianificato e costruito per evidenziare la performance della brava e giovane attrice e farle conquistare premi su premi. La Lawrence (Oscar per Il lato positivo) ha infatti già vinto il Golden Globe per il ruolo di Joy Mangano ed è candidata agli Oscar come miglior attrice protagonista. A nostro avviso la sua interpretazione è stata intensa, emozionante e assolutamente impeccabile ma risulta penalizzata dalla discontinuità e dai difetti della pellicola che non riesce a sfruttare al meglio l’enorme potenziale a disposizione: la favola della moderna Cenerentola americana, infatti, non convince fino in fondo.

Dal punto di vista tecnico vanno comunque segnalati l’ottima scenografia e il meraviglioso piano sequenza nella scena in cui Joy sale per la prima volta sul palcoscenico di una televendita.

Senza dubbio Joy è in tutto e per tutto un tipico film di David O. Russell, caratterizzato da personaggi grotteschi, uno strano connubio tra dramma e commedia immancabilmente ambientato in una famiglia americana abbastanza disagiata e a suo modo rappresentativa di tante altre. 

Dal 28 gennaio al cinema. 

venerdì 22 gennaio 2016

“Se mi lasci non vale”: gradevole commedia dall’intreccio pirandelliano

di Silvia Sottile

Vincenzo (Vincenzo Salemme) e Paolo (Paolo Calabresi) sono appena stati lasciati dalle proprie compagne. Si incontrano casualmente in un locale e fanno subito amicizia raccontandosi le rispettive delusioni amorose (che continuano a bruciare), finché Vincenzo non ha un’idea geniale: per smettere di star male bisogna vendicarsi! Così i due iniziano ad ordire un piano machiavellico per far soffrire le loro ex. Ognuno dovrà conquistare la ex dell’altro facendo leva su tutti gli interessi e i punti deboli rivelati dall’amico, farla innamorare per poi lasciarla senza alcuna pietà. Paolo si fingerà vegano per conquistare Sara (Serena Autieri) mentre Vincenzo dovrà interpretare un ricchissimo uomo d’affari per affascinare Federica (Tosca D’Aquino), interessata solo ai soldi e al potere. Per aiutarli nel loro piano entra in scena Alberto Giorgiazzi (Carlo Buccirosso), un attore di teatro sui generis, ingaggiato per impersonare l’autista, che complicherà ulteriormente le cose, rendendole ancora più divertenti e rocambolesche.

Se mi lasci non vale, come si evince dalla trama, è una simpatica commedia degli equivoci di stampo teatrale, che gioca ironicamente sulla classica contrapposizione realtà/finzione. Vincenzo Salemme (in veste di regista e cosceneggiatore) si affida ad un soggetto di Paolo Genovese che a sua volta si ispira a Delitto per delitto di Alfred Hitchcock. Proprio la provenienza dal teatro degli attori protagonisti fa sì che la storia abbia il ritmo giusto, con scene dinamiche e battute brillanti che riescono a far ridere grazie ai tempi comici perfetti e soprattutto al modo in cui vengono recitate. Al centro di questa situazione pirandelliana che vede coinvolti tre uomini e due donne non c’è, come ci si poteva aspettare, Salemme, ma Buccirosso, in una sorta di inversione dei loro classici ruoli di vittima e carnefice. Il loro feeling è palese, i siparietti tra i due sono tra i più riusciti e la commedia scorre piacevolmente nonostante un intreccio abbastanza prevedibile e una trama a tratti inverosimile. 
Quello che funziona è proprio il cast, dotato di innato umorismo e aiutato da una scrittura divertente e divertita che ironizza anche sul mestiere dell’attore, in una riflessione sulla vita, sull’amore, sulla vendetta e sull’amicizia. Perché poi, alla fine, quella che inizia come una storia di vendetta, rigorosamente in chiave di commedia, diventa una storia di amicizia. E alla comicità di base si aggiunge anche un tocco di romanticismo.

Le vicende sono ambientate a Napoli e napoletani sono gli interpreti principali (Salemme, Buccirosso, Autieri, D’Aquino) con l’innesto del romano Calabresi che ben si amalgama a questa realtà partenopea. La partecipazione dello straordinario Carlo Giuffrè nel ruolo del padre di Paolo è un po’ come la ciliegina sulla torta. Da segnalare la piacevole colonna sonora di Antonio Boccia e l’inserimento delle splendide note di Vivaldi (La primavera da “Le quattro stagioni”) e Pino Daniele (Che male c’è).

Se mi lasci non vale, nelle nostre sale dal 21 gennaio, è una godibile e simpatica commedia degli equivoci, di impronta teatrale, che regala un’ora e mezza di spensieratezza e sorrisi. Una ventata d’aria fresca per il cinema italiano.


“Steve Jobs”: un biopic in tre atti

di Silvia Sottile

Danny Boyle, regista di film cult quali Trainspotting (1996) e The Millionaire (2008) che gli è valso l’Oscar per la regia, porta in scena (nel vero senso della parola) un ritratto piuttosto atipico di Steve Jobs, il fondatore della Apple. Non si tratta infatti della storia della sua vita ma punta solo su tre momenti particolarmente importanti della sua carriera professionale, facendoli incrociare con l’aspetto privato.

La sceneggiatura di Steve Jobs, basata sull’omonima biografia autorizzata  scritta da Walter Isaacson e pubblicata nel 2011, è ad opera di un altro premio Oscar, Aaron Sorkin (The Social Network). Questo brillante adattamento gli è appena valso un Golden Globe, tanto che stupisce la sua mancata candidatura agli Oscar.

Il copione del film presenta una struttura teatrale, cosa che emerge in tutta la sua evidenza nel corso della rappresentazione. Si tratta di un’opera tripartita (quasi come fosse suddivisa in tre atti) che si svolge nel backstage pochi minuti prima dei lanci dei tre prodotti più rappresentativi della carriera di Jobs: si parte col Macintosh nel 1984, si passa poi al NeXT nel 1988 e si finisce con la presentazione dell’iMac nel 1998, tratteggiando un ritratto più intimo che professionale dell’uomo che ha rivoluzionato la tecnologia digitale. Quello che emerge infatti non è l’esaltazione del mito di Steve Jobs ma un uomo con immani pregi ed anche enormi difetti, soprattutto in ambito relazionale.

La sceneggiatura eccellente e la regia impeccabile sono trascinati dalla straordinaria interpretazione di Michael Fassbender nei panni di Steve Jobs, a dimostrazione che per trasformarsi nel personaggio ed essere convincenti non è necessaria una forte somiglianza fisica ma conta esclusivamente l’incredibile capacità recitativa. Fassbender ha offerto una prova immensa del suo talento che gli è valsa una meritatissima nomination agli Oscar. Ne viene fuori il ritratto di un genio, la cui mente instancabile ha praticamente plasmato il mondo (quasi come un direttore d’orchestra) ma emergono anche tutte le sue difficoltà nei rapporti umani che ci portano ad empatizzare con lui. 
Va riconosciuto grande merito anche alla bravura di Kate Winslet che interpreta (con una performance meno evidente, dato il minore spazio sulla scena, ma altrettanto grandiosa) Joanna Hoffman, ovvero la direttrice marketing sempre al fianco di Jobs, ruolo che l’ha portata a vincere il Golden Globe come miglior attrice non protagonista (e nella stessa categoria è in lizza per l’Oscar). Altre figure ruotano intorno a Jobs e si trovano a dialogare e a scontrarsi con lui dietro le quinte proprio nei momenti che precedono i tre importanti lanci: l’ex-fidanzata Chrisann Brennan (Katherine Waterston) insieme alla figlia Lisa, l’amico e co-fondatore della Apple Steve Wozniak (Seth Rogen) e l’ex CEO (amministratore delegato) della Apple John Sculley (Jeff Daniels). Tutto il cast è di alto livello e dà vita a questa sorta di spettacolo teatrale su grande schermo che nella sua struttura tripartita (ma anche nel percorso interiore del protagonista) ricorda molto Il canto di Natale di Charles Dickens con Scrooge che incontra i suoi fantasmi del passato, presente e futuro: la differenza è che qui Jobs incontra le figure reali della sua vita, anche se indubbiamente in parte romanzate. 
Tanti i dialoghi, continui i movimenti in scena, davvero un’opera incredibile, sorretta anche dalla particolare colonna sonora di Daniel Pemberton che ha creato musiche diverse per ognuno dei tre segmenti, particolarmente adatte ad evidenziare il momento storico e tecnologico di ogni periodo.

Steve Jobs, al cinema dal 21 gennaio, è un gioiello cinematografico, frutto dell’abilità di Boyle, dell’incredibile scrittura di Sorkin, e recitato divinamente da due dei migliori attori contemporanei, ovvero Fassbender e la Winslet. 


domenica 17 gennaio 2016

“Revenant – Redivivo”: L’Odissea viscerale di Leonardo Di Caprio

di Silvia Sottile

Revenant – Redivivo, ispirato a fatti realmente accaduti, è un’epica storia di sopravvivenza in un contesto naturale estremo e ostile. Il regista Alejandro González Iñárritu, dopo il successo e i tre Oscar (film, regia e sceneggiatura originale) vinti lo scorso anno grazie a Birdman, racconta in Revenant  le leggendarie avventure dell’esploratore e cacciatore di pellicce Hugh Glass, basandosi sull’omonimo romanzo di Michael Punke e prendendosi giusto qualche licenza poetica nell’adattare la sceneggiatura per rendere il soggetto più affine alla sua particolare visione cinematografica.

Glass (Leonardo Di Caprio), durante una spedizione in cerca di pelli nell’entroterra americano ancora inesplorato (siamo nel 1823) viene aggredito da un orso grizzly e ferito mortalmente. I compagni di caccia, temendo di venire nuovamente attaccati dagli indiani, lo lasciano al suo destino, convinti che non vi sia più nulla da fare. Il Capitano Andrew Henry (Domhnall Gleeson) lo affida a due uomini affinché gli diano degna sepoltura, ma l’avido John Fitzgerald (Tom Hardy) lo tradisce nel peggiore dei modi immaginabili e lo abbandona . Nonostante le ferite mortali, Glass troverà la forza di sopravvivere, lottare contro le avversità di quella gelata e terrificante natura selvaggia, percorrendo chilometri su chilometri tra ghiacci, fiumi, nemici, animali, sangue e morte, spinto dalla sua incrollabile forza di volontà per ottenere la sua vendetta.

La trama, scarna ed essenziale, è quella di un western sullo sfondo di una meravigliosa natura incontaminata. È senza dubbio l’aspetto visivo l’elemento principale della pellicola, quello che lascia estasiati e a bocca aperta e che ne fa un’opera indimenticabile che entra nell’anima attraverso gli occhi. Non soltanto per i paesaggi reali che tolgono il fiato (Iñárritu ha girato in Canada e in Argentina, nella Terra del Fuoco, creando non poche difficoltà a causa delle rigide temperature a cast e staff, tra distese di neve, fiumi gelati e alberi che si stagliano alti verso il cielo) ma anche per l’uso delle sole luci naturali (preferibilmente all’alba o al tramonto), scelta rischiosa ma dai risultati strabilianti grazie all’incredibile lavoro di Emmanuel Lubezki, il direttore della fotografia che potrebbe (meritatamente) vincere il terzo Oscar consecutivo dopo Gravity di Cuarón e il già citato Birdman. I panorami, i colori, la luminosità, le prospettive, riescono a trasmettere forti emozioni oltre ad ammaliare lo spettatore, il tutto diretto in maniera magistrale da Iñárritu che con la sua abilità tecnica e l’uso stupefacente del piano sequenza si lascia andare ad impeccabili virtuosismi di grande effetto. Non mancano naturalmente le immagini molto crude, forti, violente e drammaticamente realistiche, come ad esempio la feroce lotta tra Glass e l’orso, che incredibilmente è l’unica scena girata con la CGI. 
Alla rudezza del western si aggiungono alcune immagini oniriche che ci mostrano anche l’anima del protagonista, oltre al suo corpo dilaniato dal dolore e dalle ferite. L’unica pecca  forse solo l’eccessiva lunghezza (156 minuti conditi da pochissimi dialoghi) ma l’impatto visivo ed emotivo è talmente forte che non c’è spazio per la noia.

E poi c’è lui, Leonardo di Caprio, alle prese con l’interpretazione della vita, quella che potrebbe finalmente regalargli l’agognato Oscar (e che già gli è valsa il Golden Globe come miglior attore drammatico), un’interpretazione intensa e struggente, fatta soprattutto di sguardi, respiri, grugniti e pochissime parole appena sussurrate, un’interpretazione viscerale, totalmente coinvolgente, da cui traspare tutto il dolore fisico e la fatica del suo personaggio, oltre al travaglio interiore e al desiderio di vendetta che lo spinge a sopravvivere contro avversità di ogni tipo, tanto forte da farci immedesimare e quasi vivere con lui la sua Odissea. Anche Tom Hardy (per lui prima nomination agli Oscar come attore non protagonista) è perfetto nel ruolo del villain, un ottimo antagonista, forse a tratti un pizzico sopra le righe, cosa che comunque rientra nel carattere del suo personaggio.

Anche la colonna sonora (un mix di musiche a tratti intense, a tratti delicate, elementi in stile western ma anche silenzi in cui si sentono solo i rumori della natura) riveste un ruolo importante e si rivela sempre funzionale a veicolare le emozioni.

Revenant – Redivivo, nelle nostre sale dal 16 gennaio, candidato a ben 12 premi Oscar, è un film intenso, epico, immenso dal punto di vista tecnico, visivo e recitativo. Nonostante una trama essenziale riesce a veicolare forti emozioni che colpiscono profondamente l’anima dello spettatore. Un capolavoro.

giovedì 14 gennaio 2016

“Creed – Nato per combattere”: Sylvester Stallone torna a vestire i panni di Rocky Balboa

di Silvia Sottile
Il giovane e talentuoso regista e sceneggiatore Ryan Coogler, cresciuto nel mito di Rocky Balboa, riesce a realizzare il suo coraggioso progetto di riportare sullo schermo Sylvester Stallone nel leggendario ruolo che lo ha reso famoso nel mondo. La collaborazione tra i due è stata fondamentale ed il risultato è un film emozionante che rilancia la saga, dando vita a una nuova storia che poggia su quella vecchia, su solide basi che servono a costruire un nuovo futuro e probabilmente ulteriori capitoli.

Il protagonista di Creed – Nato per combattere  è Adonis Johnson (Michael B. Jordan, che Coogler ha già diretto nel suo precedente e molto apprezzato Prossima fermata Fruitvale Station), figlio illegittimo di Apollo Creed, storico rivale e poi amico di Rocky. Adonis non ha mai conosciuto suo padre, morto prima che lui nascesse, ha perso la madre da piccolo, ritrovandosi poi spesso coinvolto in risse. A salvarlo dal riformatorio Mary Anne Creed (Phylicia  Rashad), la vedova di Apollo, che lo adotta donandogli affetto e una vita agiata. Ma Adonis ha la boxe nel sangue e non potrebbe essere altrimenti, così lascia Los Angeles per trasferirsi a Philadelphia e convincere il mitico Rocky Balboa (Sylvester Stallone) ad allenarlo. Non sarà facile, perché Rocky non vuole più avere a che fare con quel mondo, eppure qualcosa in Adonis lo convince. Così gli farà da mentore e allenatore, insegnandogli a combattere sul ring, mentre lui stesso combatterà la sua battaglia personale fuori dal ring, la più difficile che un uomo debba affrontare, grazie anche all’affetto del giovane allievo con cui si crea uno stretto legame, quasi un rapporto padre/figlio. 
Creed non è solo una storia di pugilato, ma anche un percorso di formazione di un ragazzo che inizialmente rifiuta il cognome del padre, per paura di non esserne all’altezza, perché vuole farcela con le proprie forze o solo perché ancora non ha imparato a rapportarsi con questa figura leggendaria, accompagnato sia dentro che fuori dal ring da un altro mito, Rocky, invecchiato, stanco, saggio, immalinconito dalla morte della sua Adriana, ma sempre un combattente.

Michael B. Jordan regge bene il peso del ruolo da protagonista, si mostra credibile e in parte. Sul ring si scontra in maniera convincente con veri pugili professionisti, tra cui Antony Bellew (nel ruolo di ‘Pretty' Ricky Conlan, detentore del titolo mondiale, il cui manager è interpretato da Graham McTavish). C’è anche una presenza femminile con relativa sottotrama romantica, ovvero Bianca (Tessa Thompson), una giovane cantante di cui Adonis si innamora.  E Sylvester Stallone? Davvero ottimo! È lui forse la vera sorpresa del film: meraviglioso e nostalgico ritrovarlo nei panni di Rocky ma questa volta l’attore mostra tutto il suo talento regalandoci una straordinaria e persino commovente interpretazione che gli è appena valsa un Golden Globe come miglior attore non protagonista e la nomination agli Oscar nella stessa categoria.

Coogler riesce a dosare in maniera equilibrata i vari elementi del film, creando un perfetto mix di sport e dramma (alternando momenti più crudi ad altri più emotivi) sostenuto dalla sua valida sceneggiatura. Creed è un film che dura oltre due ore ma scorre piacevolmente coinvolgendo in ogni momento, appassionando sia per alcuni rimandi nostalgici (senza esagerare) ma anche (e soprattutto) per questa nuova storia avvincente. La dinamicità della pellicola è sicuramente merito del modo in cui sono state fatte e montate le riprese. Difatti anche dal punto di vista tecnico Coogler e i suoi collaboratori sono stati molto abili, in particolar modo meritano un grandissimo applauso alcuni stacchi e l’uso (a dir poco mozzafiato) del piano sequenza durante i combattimenti sul ring.

Esaltante la colonna sonora di Ludwig Goransson, che dà la carica, tra musica afro, rap e hip hop, unita all’immancabile e classico tema musicale di Rocky che rende il finale addirittura epico. 
Creed – Nato per combattere, al cinema dal 14 gennaio, è un film che regala emozioni, entusiasmante e commovente al tempo stesso. Merita assolutamente di essere visto.

“La Corrispondenza”: una melodrammatica storia d’amore

di Silvia Sottile

Il regista premio Oscar Giuseppe Tornatore (Nuovo Cinema Paradiso), tre anni dopo La migliore offerta,  torna a raccontare e sondare l’amore, con risultati questa volta non all’altezza del suo precedente lavoro.

Amy Ryan (Olga Kurylenko) è una giovane studentessa universitaria che lavora come controfigura per il cinema, in particolare ama le scene d’azione, trovando quasi catartico morire innumerevoli volte nella finzione per poi riaprire gli occhi dopo ogni morte. Ha una relazione da sei anni col suo professore di astrofisica, Ed Phoerum (Jeremy Irons), molto più grande di lei, sposato e con figli. Tra i due ci sono solo pochi incontri, ma innumerevoli modi per tenersi in contatto a distanza, grazie alle nuove tecnologie, a partire da conversazioni via Skype. Un giorno Ed scompare nel nulla, eppure Amy continua a ricevere mail, messaggi, lettere, regali e video in ogni istante della giornata. Cosa è realmente accaduto?

Tornatore esplora una grande storia d’amore attraverso lo schermo di un computer (o di un cellulare), infatti Irons e la Kurylenko sono in scena insieme solo una volta. Dopo, lei è sempre presente mentre lui è relegato ai videomessaggi inviati incessantemente alla sua amata. Quasi un non voler lasciare andare un grande amore, rinviando il più possibile l’inevitabile destino. Gioia o tormento infinito per la bella Olga mantenere un contatto impossibile con l’affascinante Ed? Di certo c’è che lo spettatore si annoia quasi subito a causa di dialoghi melensi, struggenti dichiarazioni d’amore, toni enfatici e retorici e le due ore di film scorrono con una lentezza a dir poco estenuante. Non aiutano neanche le musiche fin troppo sontuose del Maestro Ennio Morricone, collaboratore storico del regista siciliano e fresco vincitore del Golden Globe per la colonna sonora di The Hateful Eight di Quentin Tarantino. La trama è ridotta all’osso, divenendo via via sempre più surreale, tutto si basa sulle emozioni, esagerate, eccessivamente drammatizzate, enfatizzate ulteriormente dalle ridondanti note quasi barocche e da un doppiaggio incredibilmente scollato. Le situazioni ripetitive e le frasi sdolcinate diventano insopportabili, così come il suono continuo dello smartphone della protagonista. Per assurdo ci troviamo di fronte ad un racconto d’altri tempi, una storia d’amore all’antica, nonostante l’uso smodato della comunicazione moderna mediata dalla tecnologia. 

Non è un thriller La Corrispondenza ma un melodramma dal ritmo troppo lento. Oltretutto il colpo di scena più importante avviene circa mezz’ora dopo l’inizio e il resto perde credibilità strada facendo. Gli interpreti ce la mettono tutta: Olga Kurylenko cerca di tenere la scena per tutta la durata del film, rivelandosi intensa oltre che straordinariamente bella, poco può invece il premio Oscar Jeremy Irons (Il mistero Von Bulow) relegato in un piccolo schermo. Stupisce questa scelta di Tornatore e dispiace davvero molto dover ammettere che questa volta non è riuscito nel suo intento di regalare un altro meraviglioso capolavoro del calibro dei precedenti. E in ogni caso il tema centrale de La corrispondenza non è neanche nuovo nel panorama cinematografico, dato che ricorda davvero molto P. S. I love you di Richard LaGravenese (tratto dall’omonimo romanzo di Cecilia Ahern) con la differenza che lì c’era anche spazio anche per momenti più leggeri e ironici, mentre qui la pesantezza dei toni melodrammatici non lascia scampo e purtroppo la noia incombe. A farne le spese sono proprio le emozioni che faticano ad arrivare allo spettatore e la trama non riesce a coinvolgere.

Molto belle però le location scelte, ovvero l’Inghilterra e la Scozia (riconosciamo la romantica York ed Edimburgo) ma anche il Trentino Alto Adige ed il Piemonte, con la meravigliosa Isola di San Giulio sul Lago d’Orta che ha un ruolo di primo piano ai fini della narrazione, oltre ad essere di una bellezza mozzafiato a livello paesaggistico.


La Corrispondenza è nelle nostre sale dal 14 gennaio in circa 400 copie.