Parliamo di...

domenica 29 maggio 2016

“Julieta”: Almodóvar e l’universo femminile

di Silvia Sottile

Presentato in concorso al 69° Festival del cinema di Cannes, Julieta rappresenta un ritorno di Pedro Almodóvar a un tema a lui molto caro, ovvero l’esplorazione dell’universo femminile, utilizzando, nello specifico, un registro esclusivamente drammatico.Julieta (Emma Suàrez) sta per trasferirsi in Portogallo col compagno Lorenzo (Dario Grandinetti). Un giorno, dopo un incontro casuale, viene a sapere che la figlia Anthìa, di cui non sa nulla da oltre dieci anni, vive in Svizzera. Decide dunque di rimanere a Madrid, torna a vivere nel suo vecchio appartamento e rievoca i dolorosi ricordi del passato attraverso l’espediente di una lunga lettera scritta alla figlia. Vediamo, quindi, come Julieta da giovane (Adriana Ugarte) conobbe su un treno il pescatore Xoan (Daniel Grao), il padre di Anthìa, e si trasferì con lui in Galizia, fino al drammatico evento che le sconvolse la vita. Una tragedia che invece di unire madre e figlia, le ha separate.

Ispirato ad alcuni racconti della scrittrice canadese premio Nobel Alice Munro, Julieta (che inizialmente doveva intitolarsi Silencio) è stato riadattato da Almodóvar alla realtà spagnola che sente di comprendere molto più di quella americana. Il regista di Donne sull’orlo di una crisi di nervi, Tutto su mia madre (Oscar al miglior film straniero), Parla con lei (Oscar per la migliore sceneggiatura originale) e numerose altre pellicole coinvolgenti, che hanno portato a considerare i suoi lavori come un genere cinematografico specifico, questa volta delude fortemente le aspettative.

Innanzitutto appare non necessaria, addirittura controproducente, la scelta di affidare la parte della protagonista a due attrici differenti, per quanto sia la Ugarte che la Suàrez abbiano interpretato bene il ruolo. L’espediente utilizzato per il passaggio dal personaggio giovanile a quello adulto, che avviene sotto un asciugamano, si rivela forse la scelta stilistica più audace, interessante e stranamente azzeccata. Perché per il resto la regia di Almodóvar, e spiace davvero dirlo, è completamente piatta, così come le interpretazioni. Il regista infatti non riesce a trasmettere emozioni, troppo trattenute, nonostante le tragedie nella vita di questa donna siano innumerevoli ed eccessive. Sembra quasi che la protagonista viva i drammi della sua esistenza con una dolorosa e misurata rassegnazione, una sorta di indolenza e muta resistenza al destino avverso dagli echi verghiani, o, ancor più, da tragedia greca (del resto Julieta insegna letteratura classica). Le atmosfere sono affascinanti e i colori forti e accattivanti (solo nelle sequenze legate al passato, sul treno e in Galizia, mentre nel presente è tutto troppo bianco, spento e asettico), per quanto non ai livelli a cui ci ha abituati Almodóvar,  ma la sceneggiatura non regge, la trama risulta slegata e senza un senso logico. Il film, già poco avvincente di suo, non porta da nessuna parte e non lascia assolutamente nulla, eccetto forse un senso di incompiuto. I personaggi che ruotano intorno alla protagonista (l’unica con una caratterizzazione più forte) sono poco più che comparse sbiadite, ad eccezione di una delle prime muse del regista spagnolo, Rossy de Palma, nel ruolo della governante. In sintesi, Julieta, più che un film di Almodóvar sembra una telenovela o un film tv, a dimostrazione che la sola estetica non basta quando manca la sostanza.

Julieta, al cinema dal 26 maggio, è un melodramma poco avvincente, un deludente viaggio nell’universo femminile, un passo falso per Pedro Almodóvar da cui ci si aspettava di più. Si tratta decisamente di uno dei suoi lavori meno convincenti, il cui flop in patria non è dunque da imputare solo al coinvolgimento del regista nello scandalo Panama Papers.

mercoledì 25 maggio 2016

“Alice attraverso lo specchio”: nuove avventure nel paese delle meraviglie

di Silvia Sottile

Alice attraverso lo specchio di James Bobin è il sequel di Alice in Wonderland (2010) di Tim Burton, ma per certi versi ne rappresenta anche una sorta di prequel.  Liberamente ispirato al romanzo Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò di Lewis Carroll, questo film ci narra nuove avventure di Alice e dei suoi stravaganti amici del paese delle meraviglie. Torniamo così a immergerci nel fantastico, variopinto e gotico Sottomondo scaturito dalla fantasia visionaria di Tim Burton ma senza Burton al timone, che si ritaglia infatti solo un ruolo da produttore e affida l’opera a Bobin per la sceneggiatura di Linda Woolverton (La Bella e la Bestia, Il Re Leone, Maleficient), già autrice del primo capitolo.

Alice (Mia Wasikowska) ha solcato i mari per anni, girando il mondo e seguendo le orme paterne. Al suo ritorno a Londra trova però parecchi problemi e le cose sono molto cambiate. Intanto viene richiamata nel Sottomondo (al quale stavolta accede attraverso uno specchio) per aiutare il suo caro amico Tarrant, il Cappellaio Matto (Johnny Depp), in precarie condizioni di salute dopo aver perso la sua moltezza. Alice è l’unica che può salvarlo e per farlo deve ingaggiare una vera e propria lotta contro il Tempo (Sacha Baron Cohen), a cui è costretta a rubare la cronosfera per tornare nel passato. dove incontrerà i suoi amici e i suoi nemici in diversi momenti, addirittura antecedenti alla prima storia. 

Riuscirà a cambiare alcuni avvenimenti (o almeno a trarne insegnamento) per poter salvare il Cappellaio e la sua famiglia? Ritroviamo dunque molti degli amati (o odiati) personaggi che già conosciamo a cui se ne aggiungono di nuovi: La Regina Bianca Mirana (Anne Hathaway), la Regina Rossa Iracebeth (Helena Bonham  Carter), il Brucaliffo (ultima fatica cinematografica del compianto Alan Rickman), lo Stregatto  (Stephen Fry), il Bianconiglio (Michael Sheen), il padre del Cappellaio Matto, Zanik Hightopp (Rhys Ifans), e la madre di Alice, Helen (Lindsey Duncan). Nel cast anche Ed Speleers, Andrew Scott, Hattie Morahan e soprattutto segnaliamo la presenza di Richard Armitage, regale, maestoso e perfettamente a suo agio nel ruolo del Re (il padre di Mirana e Iracebeth): come non pensare infatti immediatamente alla sua intensa interpretazione di Thorin Scudodiquercia nella trilogia de Lo Hobbit di Peter Jackson?

La trama di Alice attraverso lo specchio, nonostante i numerosi salti temporali, si rivela più lineare e armoniosa rispetto ad Alice in Wonderland e addirittura vengono fornite spiegazioni che colmano i buchi del precedente episodio. C’è meno caos e più avventura, il ritmo è molto dinamico e movimentato, veloce e frizzante. Sicuramente l’impostazione è meno dark e al contempo più sentimentale: viene infatti ribadita, come in ogni fiaba che si rispetti, l’importanza della famiglia. In realtà proprio questa enfasi didascalica sui valori e i buoni sentimenti, con tanto di morale, lo rende un prodotto rivolto principalmente ai bambini. Tuttavia anche il pubblico adulto  può apprezzare le sontuose scenografie dai vivaci colori sgargianti, gli splendidi costumi di Colleen Atwood (già Oscar per Alice in Wonderland, oltre che per Chicago e Memorie di una Geisha), l’accattivante colonna sonora (il brano principale è Just Like Fire della popstar P!nk), e un discreto 3D (in particolare nelle immagini del mare in tempesta, metafora del tempo). Se la Wasikowska e la Hathaway si limitano a fare il loro compitino (brave attrici ma oggettivamente un po’ sprecate), sempre straordinaria è la Bonham Carter, soprattutto nelle scene del passato che rivelano l’origine degli scontri con la sorella. Davvero bravo e impeccabile Sacha Baron Cohen che. nel ruolo del Tempo. dà un grosso contributo a reggere le fila del film: sicuramente si tratta del personaggio più interessante e innovativo. Non ci siamo dimenticati di Johnny Depp: nonostante il solito trucco eccesivo, regala un’inattesa dolcezza e sensibilità al suo Cappellaio, sempre triste e sottotono, meno stralunato di quanto lo ricordassimo.

Alice attraverso lo specchio, nelle nostre sale dal 25 maggio, per quanto privo di particolari guizzi, è una piacevole, divertente, colorata e sentimentale avventura nel  paese delle meraviglie. Riuscirà la Disney a bissare il clamoroso successo al botteghino di sei anni fa?

domenica 15 maggio 2016

“Il Ministro”: black comedy indipendente

di Silvia Sottile

Ultimamente vanno molto di moda le commedie nere, con repentini cambi di registro, ma c’è anche un’abbondanza di film con un’ambientazione di stampo teatrale, che si svolgono in una sola notte, in un appartamento, intorno a un tavolo. Tanto per fare qualche esempio possiamo citare Il nome del figlio di Francesca Archibugi (remake del francese Cena tra amici) e il fresco trionfatore ai David di Donatello, Perfetti Sconosciuti di Paolo Genovese.  Perché, si sa, durante una cena può davvero succedere di tutto. E se i dialoghi sono ben scritti, la messa in scena può offrire molte opportunità. Questo è anche il caso de Il Ministro, film indipendente scritto (in 10 giorni) e diretto (in sole tre settimane di riprese) da Giorgio Amato, una graffiante black comedy sui vizi italici, in cui alla fine non si salva davvero nessuno.

Franco Lucci (Gianmarco Tognazzi) è un imprenditore sull’orlo della bancarotta. Per salvare la sua società dal fallimento deve a tutti costi ottenere un appalto. Invita così a cena il Ministro Rolando Giardi (Fortunato Cerlino), organizzando insieme al cognato Michele (Edoardo Pesce) quella che sembra la serata perfetta per corromperlo: vini e piatti prelibati, una cospicua tangente e una ragazza disposta ad andare a letto con lui. Il tutto sotto gli occhi di Rita (Alessia Barela), la frustrata (e vegetariana) moglie di Franco, e della domestica Esmeralda (Ira Fronten). Ma se la presunta escort di lusso è una cinese che studia teologia? A causa della ragazza, Zhen (Jun Ichikawa), le cose prendono infatti una piega molto diversa (e ben più drammatica) del previsto.

I toni sono quelli della commedia grottesca ma ne esce fuori un ritratto amaro dell’Italia. Non emerge solo la corruzione dilagante nel mondo della politica e dell’imprenditoria  ma anche (se non soprattutto) quell’atteggiamento tipico di asservimento al potere insito nella nostra natura che traspare dalla bassezza dell’animo umano di tutti i personaggi (maschili e femminili) che popolano il film.

La messa in scena è decisamente di stampo più televisivo che cinematografico, e le musiche anni ’70 di Eugenio Vicedomini sono belle ma troppo martellanti e onnipresenti. Anche i personaggi risultano a tratti stereotipati ma riescono comunque ad emergere e a lasciare il segno grazie alle ottime interpretazioni di tutti i protagonisti, decisamente in parte. Le commedie nere, specie con una grossa componente grottesca, bisogna saperle fare: Il Ministro può vantare una scrittura, una regia e soprattutto un cast all’altezza. Quello che manca è dovuto principalmente ai pochi mezzi a disposizione per questo lavoro e purtroppo si vede. Pecca infatti nelle rifiniture e si perde in alcuni dettagli, che con più tempo a disposizione probabilmente sarebbero stati smussati. A non convincere fino in fondo è il finale, che lascia comunque l’amaro in bocca.

Il regista ci ha rivelato in sede di conferenza stampa di essersi ispirato alla ballata di Fabrizio De Andrè, Il re fa rullare i tamburi, ma anche a I Mostri di Dino Risi, in particolare il primo episodio, L’educazione sentimentale  con Ugo Tognazzi, padre di Gianmarco. Le ambizioni elevate sono in parte giustificate dal risultato: nonostante i difetti e i dubbi espressi, a cui aggiungiamo l’eccessivo maschilismo, Il Ministro si rivela infatti un film decisamente migliore di quanto il trailer facesse presagire. Considerato poi quanto è difficile realizzare un film indipendente in Italia, possiamo apprezzare lo sforzo realizzativo e produttivo di Amato e il coraggio di Europictures che ha creduto nel progetto.

Il Ministro, in sala dal 5 maggio (in sole 20 copie ma ben piazzate nei maggiori circuiti cinematografici, ovvero UCI Cinemas e The Space Cinema) presenta, con i toni della commedia grottesca, una critica sociale tanto forte quanto, purtroppo, assolutamente reale.

“Money Monster – L’altra faccia del denaro”: un thriller sulla finanza e il giornalismo televisivo

di Silvia Sottile

Money Monster – L’altra faccia del denaro arriva nelle nostre sale il 12 maggio, in contemporanea all’anteprima mondiale alla 69° edizione del Festival di Cannes, dove è stato presentato fuori concorso. L’attrice e regista premio Oscar Jodie  Foster ( Sotto Accusa e Il silenzio degli Innocenti ) torna dietro la macchina da presa cimentandosi con un thriller adrenalinico sul mondo della finanza, avvalendosi di un cast d’altissimo profilo composto da una splendida e affiatata coppia di pluripremiati divi di Hollywood, George Clooney (Oscar per Syriana e Argo) e Julia Roberts (Oscar per Erin Brockovich - Forte come la verità), ancora una volta insieme sul grande schermo.

Lee Gates (George Clooney) è un presentatore televisivo che conduce una trasmissione sulla finanza, commentando la borsa ed elargendo consigli al suo pubblico in maniera istrionica e kitsch, rasentando il ridicolo. Patty Fenn (Julia Roberts) è la solida regista e produttrice del programma, onnipresente dietro le quinte attraverso l’auricolare con cui imbecca Lee. Un giorno, durante una diretta tv, Kyle Budwell (Jack O’Connell), un giovane disperato che ha perso tutti i suoi risparmi a causa di investimenti sbagliati consigliati da Lee, irrompe nel programma con una pistola e un giubbotto esplosivo prendendo in ostaggio il conduttore. Toccherà a Patty fare di tutto per salvargli la vita in una lotta contro il tempo. Le sue concitate indagini la porteranno a scoprire il marcio che si nasconde nel mercato finanziario americano e in una società quotata in borsa. Per i fan della serie tv Outlander segnaliamo la presenza di Caitriona Balfe nel ruolo della PR Diane Lester. Nel cast anche Dominic West e Giancarlo Esposito.

Se la trama è tutto sommato abbastanza prevedibile, trattandosi di un thriller di stampo piuttosto classico, che non regala nulla di particolarmente nuovo, la realizzazione invece è impeccabile e avvincente. Innanzitutto la scrittura è solida e lineare, impreziosita da dialoghi chiari e precisi, conditi da battute taglienti o ironiche al momento opportuno. Ottimo il ritmo che si mantiene sempre intenso e veloce, senza tempi morti né inutili fronzoli, riuscendo a tenere alta la tensione e la suspense per tutta la durata della pellicola, coinvolgendo lo spettatore dal primo all’ultimo istante, con l’aggiunta di quel pizzico di humour necessario per riprendere fiato. Il tema infatti è di quelli tosti, a cui ultimamente il mondo cinematografico prende spunto a mani basse: possiamo ad esempio citare sull’argomento, con le dovute differenze, La grande scommessa, film dello scorso anno di Adam McKay. Money Monster porta dunque sullo schermo una lucida critica al feroce mondo della finanza, ma anche al giornalismo televisivo, che si salva in calcio d’angolo (solo perché costretto) facendosi paladino della giustizia e della povera gente che poi alla fine è sempre e comunque quella che ci rimette. Neanche le forze dell’ordine ne escono indenni.

Buona dunque questa prova registica della Foster, che centra l’obiettivo, supportata da bravi e credibili protagonisti. I personaggi della Roberts e di Clooney sono ben caratterizzati e presentano un’evoluzione nel corso del film ma indubbiamente il merito va alle loro straordinarie doti recitative. George Clooney è assolutamente a suo agio in un ruolo che ha molte affinità con quelli da lui spesso interpretati nei film dei fratelli Coen, e Julia Roberts è la sua partner lavorativa ideale. È un piacere sentire nella versione italiana le inconfondibili voci dei loro doppiatori storici: Francesco Pannofino e Cristina Boraschi. Intenso e convincente anche il giovane Jack O’Connell, già visto in Unbroken (2014) di Angelina Jolie.

Money Monster – L’altra faccia del denaro magari non sarà un film indimenticabile, ma si rivela davvero un bel thriller che dosa sapientemente azione, humour e dramma. Un buon prodotto di intrattenimento che offre spunti di riflessione oltre ad una storia attuale, tesa e avvincente.

martedì 3 maggio 2016

“Captain America: Civil War” o un nuovo capitolo degli Avengers?

di Silvia Sottile

Arriverà nelle nostre sale il 4 maggio, con due giorni di anticipo rispetto alla release in USA, l’attesissimo terzo capitolo di Captain America: Civil War. Siamo naturalmente di fronte ad un nuovo film tratto dai fumetti dell’Universo Marvel, difatti oltre che naturale sequel di Captain America: The Winter Soldier (2014), Civil War si ricollega direttamente a Avengers: Age of Ultron (2015) in quanto le vicende prendono il via esattamente là dove erano finite. E nonostante il titolo, giustificato solo in parte da un’enfasi emotiva maggiore sul personaggio del Cap, potrebbe benissimo trattarsi di un vero e proprio film degli Avengers, mascherato da terzo episodio di Captain America.

Circa un anno dopo i fatti di Sokovia (in Avengers: Age of Ultron) in cui persero la vita molti innocenti, si verifica un altro incidente internazionale in cui sono coinvolti gli Avengers che comporta gravi danni collaterali mentre loro sono impegnati a salvare il mondo da una nuova minaccia. Le Nazioni Unite a questo punto pretendono che gli Avengers (dato che il loro potere può essere involontariamente molto pericoloso) sottostiano ad un organo governativo che ha facoltà di decidere quando e come possono intervenire. 

I Vendicatori dovranno dunque rispondere del loro operato ai 117 paesi membri. È qui che incredibilmente gli Avengers si dividono in due fazioni, una capitanata da Iron Man/Tony Stark (Robert Downey Jr.) convinto della necessità di siglare l’accordo, e l’altra da Captain America/Steve Rogers (Chris Evans) contrario a questa regolamentazione. Falliti alcuni tentativi di accordo diplomatico ecco che si arriva al tanto atteso quanto temuto scontro tra i due schieramenti opposti a cui prendono parte, gli uni contro gli altri (oltre ai già citati Stark e Rogers): Natasha Romanoff/Vedova Nera (Scarlett Johansson), Bucky Barnes/Soldato d’Inverno (Sebastian Stan), Falcon (Anthony Mackie), War Machine (Don Cheadle), Occhio di Falco (Jeremy Renner), Visione (Paul Bettany), Scarlet Witch (Elizabeth Olsen), Ant-Man (Paul Rudd, per la prima volta tra gli Avengers ma già protagonista del film di successo dello scorso anno Ant-Man) e le due interessanti new entry (almeno per quanto riguarda l’universo cinematografico Marvel) Spider-Man/Peter Parker (Tom Holland) e T’Challa/Pantera Nera (Chadwick Boseman) che a breve avranno un film ciascuno, tutto per loro. 

Il cattivo, piuttosto atipico per  il Marvel Cinematic Universe, è Helmut Zemo (Daniel Brühl) che, mentre gli Avengers sono impegnati a scontrarsi, trama contro di loro (con solide motivazioni, intelligenza sopraffina, ma stranamente nessun super potere). Nel cast anche Emily VanCamp (Sharon Carter), Martin Freeman (Everett Ross), Marisa Tomei (May Parker, l’affascinante zia di Spider-Man) e l’immancabile cameo di Stan Lee, ormai divenuto un classico.

E niente, c’è poco da dire: la Marvel/Disney ci sa fare! Viene spontaneo fare il confronto (che risulta impietoso per la DC/Warner) con Batman V Superman, da poco uscito in sala portando anch’esso sullo schermo uno scontro tra superereoi, stroncato (a torto o a ragione, in maniera forse eccessiva) dalla critica.
In Civil War fila tutto liscio: la trama risulta lineare, ben scritta e senza buchi di sceneggiatura; la regia dei fratelli Anthony e Joe Russo è avvincente e dinamica al punto giusto, coadiuvata dalle solite e frizzanti battute ironiche in perfetto stile Marvel. La coerenza narrativa, frutto di una valida routine ormai collaudata e di un team creativo d’alto livello, viene poi spettacolarizzata dalle immagini, condite da ottimi effetti speciali. Le scene di combattimento risultano infatti coreografate alla perfezione, quasi come si trattasse di una danza supportata dal sottofondo musicale adatto e appassionante. Ribadiamo che le motivazioni dello scontro sono ben approfondite e sebbene la tensione in alcuni momenti salga si cerca sempre, appena possibile, di smorzare i toni col classico humour.  

Trattandosi di un film corale risultava difficile trovare lo spazio per approfondire ogni singolo personaggio, eppure non manca una caratterizzazione specifica per ognuno, anche a livello psicologico. Il fulcro ovviamente è su Iron Man e Captain America (ottimamente interpretati) anche se le new entry Pantera Nera e soprattutto un simpatico e divertentissimo giovane Spider-Man (non vediamo l’ora che arrivi in sala il suo film) a tratti rubano piacevolmente la scena ai protagonisti.

Di sicuro il pubblico di appassionati vedrà esattamente ciò che vuole vedere: Captain America: Civil War è un ottimo e gradevole cinecomic, uno dei migliori, così ben realizzato che le due ore e mezza di durata sembrano volare e di conseguenza sale l’attesa per un nuovo episodio di questa saga infinita. È auspicabile aver visto i precedenti capitoli di Captain America, di Iron Man e degli Avengers, ma assicuriamo che la pellicola risulta perfettamente godibile anche da chi entra per la prima volta in questo universo. Il successo è garantito.

Ricordiamo di rimanere in sala durante i titoli di coda per non perdere l’ormai abituale scena post credits.