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domenica 28 giugno 2015

In "Predestination" il tempo non scorre mai

di MsLillaRoma

Un agente speciale, una macchina del tempo ed una storia circolare, questi gli ingredienti di “Predestination" affascinante film di fantascienza scritto e diretto da Peter e Michael Spierig, già autori di horror di grande successo (Undead, prodotto coi loro risparmi, li portò alla ribalta e la sceneggiatura di Daybreakers L’ultimo vampiro fu comprata dalla Lionsgate Entertainment). 

Il Barista Ethan Hawke, attraverso viaggi spazio-tempo, lavora per prevenire il crimine. Arrivato alla fine della carriera, deve affrontare l’ultimo incarico: trovare ed eliminare un folle per impedirgli di commettere un attacco terroristico a New York che provocherà oltre diecimila vittime. Alla conclusione dell’incarico, potrà allontanarsi e godersi la pensione… ma le cose non vanno come previsto!

In Predestination la vita è sempre sospesa, con un tempo variabile e distribuito su molte direzioni che si diramano per poi ricongiungersi in un arco temporale di circa trenta anni (1945 - 1993). La vita dell’agente è, quindi, presentata in circolo sia attraverso il tempo che indipendentemente da esso… ne risulta un film complesso ed intrigante. A questo proposito lo stesso Hawke ha dichiarato “Chiunque ti dica di sapere di cosa Predestination parli… sta mentendo”. Mentire non è nelle intenzioni di questa recensione, infatti è difficile raccontare la trama di questo film senza rovinare la sorpresa finale. Predestination non ha un plot convenzionale ma piuttosto è un’avvincente successione di sorprese che diverte e convince, una pellicola e una storia in cui nessuno è quello che sembra, un film paradossale.

Tratto dal racconto Tutti voi zombie di Robert A. Heinlein (1959), la pellicola è stata girato in appena un mese (32 giorni, dal 9 aprile al 21 maggio) in Australia, luogo strategico: “Abbiamo scelto Melbourne per una serie di motivi" spiega il produttore Tim McGahan "ma soprattutto perché aveva la posizione più adatta e poi perché il film richiedeva un numero sostanziale di location diverse, essendo un film spazio temporale ci servivano svariati scenari. Melbourne era adatta a quasi tutte le nostre esigenze, senza dover costruire troppi set.”

Ethan Hawke - candidato all’Oscar per Boyhood, film che affronta anch’esso il tema del tempo - offre un'interpretazione impeccabile dell’agente speciale dai mille volti; veramente straordinaria, e da noi quasi sconosciuta, è invece Sarah Snook che interpreta La Madre Nubile, un personaggio surreale dalla sessualità indefinita. Proprio la sessualità gioca un ruolo fondamentale e contribuisce a costruire la struttura del film che ruota in tondo ma non si ripete mai. 
Hawke and Snook duettano splendidamente per gran parte della pellicola in un'atmosfera di perenne sorpresa che sfocerà nel finale, che è poi anche l’inizio del film…  


Al cinema dal 1 luglio.

giovedì 25 giugno 2015

“Ruth & Alex – L’amore cerca casa”: Diane Keaton & Morgan Freeman innamorati da 40 anni

di Silvia Sottile

Ruth & Alex - L’amore cerca casa è una deliziosa commedia dai toni romantici e delicati che vede protagonisti un uomo e una donna non più giovani ma ancora innamorati come il primo giorno, interpretati da due straordinari attori premio Oscar, Diane Keaton (Io e Annie) e Morgan Freeman (Million Dollar Baby), che incredibilmente non avevano mai avuto l’occasione di lavorare insieme sul grande schermo. Il film, diretto dal regista inglese Richard Loncraine (Wimbledon) , è tratto dal romanzo Heroic Measures di Jill Ciment, appena pubblicato in Italia da Newton Compton proprio in occasione dell’uscita della pellicola (nelle nostre dal 25 giugno con Videa).

La trama è in fondo molto semplice e ruota intorno alla decisione di Ruth (Diane Keaton), insegnante in pensione, e Alex (Morgan Freeman), pittore, di vendere il loro piccolo appartamento a Brooklyn acquistato a poco prezzo 40 anni prima. In realtà i coniugi non sono proprio convinti di questa decisione: nonostante adesso il quartiere sia di moda e le loro due stanze valgano una piccola fortuna, sono molto legati ai ricordi che hanno costruito lì, insieme, durante tutta la loro vita. 
La vista dal terrazzo, inoltre, è davvero mozzafiato! A forzarli (facendo leva sulla mancanza dell’ascensore, perché fare 5 piani di scale alla loro età può essere troppo faticoso) è la nipote di Ruth, Lily (Cynthia Nixon, la Miranda di Sex and the City), agguerrita agente immobiliare, e così marito e moglie si ritrovano catapultati nel folle mercato immobiliare newyorkese in un fine settimana in cui succede di tutto. Oltre agli strani individui che visitano la loro casa come potenziali acquirenti, due eventi inaspettati mescolano le carte in tavola: un uomo abbandona un tir su un ponte e subito si scatena l’isteria collettiva con i media che sospettano un attentato terroristico e soprattutto Dorothy, l’amata cagnolina di Ruth e Alex, ha un malore e deve essere urgentemente operata.

L’atmosfera non è mai drammatica o smielata ma si ha sempre l’impressione, nonostante il caos di alcuni momenti frenetici, di trovarsi all’interno di una storia intima, reale, vera, grazie naturalmente alla perfetta armonia tra Ruth e Alex, di cui vediamo anche alcuni flashback del loro passato (da giovani hanno le fattezze di Claire van der Boom e Korey Jackson) e della loro storia d’amore coraggiosa (anche se il tema della differenza razziale è solo appena accennato). Merito della regia, della sceneggiatura delicata ma soprattutto della straordinaria interpretazione di Freeman e della Keaton. Fin da subito si nota che insieme fanno scintille sullo schermo, perfettamente in parte, deliziosi. Sono loro due a reggere il film, a fare la differenza. Anche Cyntia Nixon, a dire il vero, è a suo agio nel ruolo.

È lampante la critica al mercato immobiliare, così come all’allarmismo fuori controllo dei media americani. New York è una meravigliosa e vivace location naturale e le musiche scelte si sposano benissimo con la storia. Ma il cuore del film è sicuramente l’amore tra Ruth e Alex, che da questo caotico weekend traggono la conclusione più importante, tornando quasi al punto di partenza: non importa dove andranno a vivere, sono l’una la casa dell’altro.

Se all’apparenza Ruth & Alex – L’amore cerca casa può sembrare una commedia animata da uno spirito leggero, nel profondo si rivela toccante, delicata e anche commovente ma con un tocco di ironia ben dosata che consente di emozionarsi al punto giusto.

mercoledì 17 giugno 2015

“Albert e il diamante magico”: le avventure di un piccolo combinaguai

di Silvia Sottile

Albert e il diamante magico è un film di animazione danese, diretto da Karsten Kiilerich e tratto dal racconto Albert dello scrittore e illustratore Ole Lund Kirkegaard, pubblicato nel 1968 e premiato l’anno successivo come miglior libro per bambini dal Ministero della cultura danese. In Italia è edito da Mursia. 
La storia (sia del romanzo che del film, con qualche piccola variazione) è quella di Albert, un bambino con i capelli rossi e gli occhiali, molto sveglio, intelligente e pieno di idee ma anche una piccola peste: Albert è talmente vivace e vitale da combinare un guaio dietro l’altro. Gli abitanti della pacifica e immaginaria cittadina di Kalleby (naturalmente in Danimarca), dove sono ambientate le vicende, mal sopportano questo ragazzino scapestrato e indisciplinato che si diverte a rubare le pere (mangiandole direttamente sugli alberi) o a combattere con una spada di legno. Quando Albert distrugge accidentalmente la statua dell’eroe locale, il famoso capitano di mongolfiera Leopoldus, decide di partire all’avventura per  risolvere il guaio che ha combinato, trovare una mongolfiera e diventare lui stesso un capitano! 

Si ritrova così ad incrociare la strada del furfante Rapollo (con i suoi scagnozzi) che vuole rubare il diamante più grande del mondo (che, ci dispiace dirlo, non ha nulla di magico come fa erroneamente credere il titolo italiano). Albert sarà accompagnato in questa fiabesca avventura dal suo migliore amico, Egon, un bambino molto più timido e pauroso, che però vuole tanto diventare un pirata e a volte fa quasi da grillo parlante all’impavido Albert che continua imperterrito a mettersi nei guai ma mostra anche di avere un cuore d’oro.

Le vivaci immagini in CG scorrono piacevolmente così come la sceneggiatura, incantando i bambini fino all’ultimo secondo e catturando la loro attenzione anche visivamente oltre che a livello narrativo con le favolose avventure in cui si trova coinvolto il piccolo Albert. L’unica pecca, forse, è l’intento un po’ troppo didascalico, ma non è detto che sia un male al giorno d’oggi. Così come è sempre un bene sottolineare il valore dell’amicizia incondizionata. 
È un piacere vedere questi due bambini allegri e solari giocare all’aria aperta (e non davanti allo schermo di un computer) e i piccoli spettatori seguiranno con trepidazione le avventure di Albert ed Egon sognando di esserne a loro volta i protagonisti. E sgraneranno gli occhi di fronte ai bucolici e coloratissimi paesaggi danesi, i ruscelli, i campi di girasoli e il cielo notturno pieno di stelle visto attraverso i rami degli alberi. Per le immagini e i paesaggi il regista si è affidato ai suoi ricordi d’infanzia, quando durante le lunghe estati danesi giocava lungo il ruscello vicino casa.

La bellezza della natura incontaminata della Danimarca, il profondo legame di amicizia tra i due piccoli protagonisti e, naturalmente, la trama a dir poco avventurosa, con tanto di briganti e capitani di mongolfiere, fanno di Albert e il diamante magico – nelle nostre sale dal 18 giugno – un film emozionante e  adattissimo ai bambini. Potrebbe interessarli a tal punto da avvicinarli anche alla lettura del libro da cui la storia è tratta.

martedì 16 giugno 2015

“Fuga in tacchi a spillo” – Commedia on the road al femminile

di Silvia Sottile

A volte si va al cinema per vedere qualcosa di impegnato, riflettere, commuoversi, altre per godersi effetti speciali pazzeschi, altre ancora semplicemente per svagarsi, staccare e ridere. Proprio quest’ultimo potrebbe il caso di Fuga in tacchi a spillo (titolo originale Hot Pursuit).
Ecco, è bene chiarirlo subito: il film di Anne Fletcher (regista di Ricatto d’amore  e  27 volte in bianco), coreografa di numerosi film prima di passare alla regia, non è sicuramente una pellicola impegnativa e ciò che al massimo può regalare è un po’ di intrattenimento, basta avere pochissime pretese. Se poi nel cast ci sono due attrici del calibro del premio Oscar Reese Witherspoon (Quando l’amore brucia l’anima) e la bella Sofia Vergara viene da pensare che l’obiettivo sarà pienamente raggiunto e il divertimento assicurato. Ovviamente purché la storia riesca almeno un minimo a reggere. E qui purtroppo non è così.

La trama è fin troppo esile e ridotta all’osso, poco credibile e sa tanto di già visto. L’agente Cooper (Reese Witherspoon) è una zelante e rigida poliziotta attenta alle regole che deve scortare a Dallas Daniella Riva (Sofia Vergara), la bella ed estroversa moglie colombiana di un boss della droga, per farla testimoniare contro un pericoloso narcotrafficante. Qualcosa va storto e le due donne si ritrovano ad attraversare il Texas in fuga sia dai criminali che dai poliziotti corrotti. La storia si sviluppa con prevedibili colpi di scena e tutti i cliché tipici del genere. In realtà la sceneggiatura, con qualche buco qua e là, sembra solo un pretesto per un esilarante show al femminile delle due attrici che dovrebbero reggere tutto il film con l’esuberanza della loro interpretazione e continui siparietti comici che nascono dal contrasto sia fisico che caratteriale tra i due personaggi che interpretano. Ad essere onesti un po’ di chimica tra le due donne c’è, per fortuna, e si vede, tanto che alcune scene sono davvero spassose e certe battute divertenti. Ma a lungo andare il gioco stanca, le gag risultano banali e forzate e il ritmo cala. Anche perché, come dicevamo, dietro (a livello di scrittura) c’è ben poca sostanza. 

Di sicuro fa più bella figura la Vergara, adattissima al ruolo di bellona sexy che usa il suo corpo per ottenere ciò che vuole, piuttosto che una rigida e insopportabile Witherspoon, mai pienamente convincente. È un peccato vederla sprecata così (oltretutto è lei a produrre il film).Tra gli interpreti anche Robert Kazinsky (Randy): poteva forse mancare il belloccio della situazione con l’ovvio risvolto romantico?
Si salvano le musiche, un mix di country e ritmi latini, ad opera di Christophe Beck (autore di numerose colonne sonore di successo, tra cui quella di Frozen) e la canzone originale Two of a crime della cantante Miranda Lambert. 

Dunque Fuga in tacchi a spillo, al cinema dal 18 giugno, va preso per quello che è: una banale commedia on the road al femminile senza troppe pretese. Accettare quel poco che funziona consente di farsi almeno qualche risata.

lunedì 15 giugno 2015

"Teneramente Folle", teneramente padre

di MsLillaRoma


“Amo i film personali e idiosincratici sulle famiglie: i film che ci mettono in connessione l’uno con l’altro e con la nostra umanità” dichiara la regista Maya Forbes, anche autrice della sceneggiatura insieme al marito co-produttore (Wally Wolodarsky) di Teneramente Folle (in originale Infinitely Polar Bear), co-prodotto dal famoso J. J. Abrams di Star Trek, Lost e Harry ti presento SallyTeneramente Folle è un debutto per la regista ed è anche una storia vera, tratta dalla sua autobiografia.

Boston, anni ’70, erede squattrinato di una ricca famiglia bianca del New England, Cam Stuart sposa Maggie, afroamericana - un eccezionale Mark Ruffalo ed un'incantevole Zoe Saldana – ed hanno due bambine. Cam è affetto da sindrome bipolare che nel linguaggio della figlia diventa il “polar bear” del titolo originale. Lo stato di salute di Cam peggiora in modo pericoloso quando perde il lavoro e la moglie è costretta a farlo ricoverare per poi trovarsi un lavoro per sopravvivere non ricevendo sufficiente aiuto dalla famiglia del marito. Dopo un periodo in ospedale psichiatrico, Cam si riprende gradualmente ed esce; a questo punto Maggie si rende conto di dover continuare a sostenere la famiglia e fa una scelta inusuale: si iscrive all’università certa che migliorare la sua istruzione le permetterà di trovare un un lavoro adeguato, di mantenere le figlie e di pagare i loro studi. 

Lascia così le piccole alle cure dell’amato ma inadeguato padre… e ne succedono di tutti i colori!

Un film divertente e follemente tenero, da cui il titolo. Una storia vera di grande umanità e amore dove mancano i soldi ma non ci si abbandona mai. Un matrimonio fuori dagli schemi ed una famiglia strampalata che trova un equilibrio suo unico e delicato, per amore. Una moglie incredibile, Zoe Saldana, che non abbandona il marito ma, con sacrifici impensabili, tiene tutto insieme. Un uomo, Mark Ruffalo, che ama follemente e supera i limiti della sua malattia. Due bambine piene di gioia di vivere che superano paure e difficoltà.


“Volevo vedere un film umano sugli effetti della malattia mentale su una famiglia” spiega Maya Forbes parlando del suo film, ed infatti Teneramente Folle  mostra amore vero affrontando la malattia mentale senza giudizio e sembra affermare che gli affetti autentici possono permettere di affrontare anche le situazioni più invivibili.


Teneramente Folle esce nelle sale italiane il 18 giugno.

mercoledì 10 giugno 2015

“Le badanti”: stereotipi e gag al limite del trash

di Silvia Sottile

L’idea di base del film Le badanti, primo lungometraggio del regista Marco Pollini, è quella di raccontare le vicende di un segmento sociale molto presente nel nostro paese ma poco o nulla rappresentato al cinema. Se le intenzioni di partenza sembrano essere interessanti, la resa è quanto di più lontano si possa immaginare.

Partiamo intanto dalla sinossi.  Lola (Samantha Castillo), Carmen (Nadiah M. Din) e Irina (Anna Jimskaya) sono tre belle ragazze extracomunitarie arrivate in Italia da tre diversi paesi alla ricerca di un futuro migliore. Dopo aver subito invidie, violenze e soprusi decidono di cambiare vita, si trasferiscono nella provincia veronese e iniziano a lavorare come badanti in una casa di cura per anziani: “Villa Bella”. Inizialmente sono vittime di scherzi da parte degli anziani (tra gli interpreti segnaliamo Pino Ammendola nel ruolo di Michele, il leader, e la novantatreenne Stella Maris nei panni di Giuseppina) ma poi fanno amicizia e conquistano la loro fiducia. Così un duro lavoro all’apparenza non appagante come quello delle badanti, diventa per queste donne una missione, tanto da fare di tutto per salvare la casa di cura dalle grinfie del direttore furbo e truffatore che l’ha portata sull’orlo del fallimento.

Leggiamo sul pressbook: “Dedicato alla vecchiaia e alle storie e le strade del passato. Dedicato ai giovani che sono alla ricerca della loro strada”. Quello che invece ci ritroviamo a vedere è un prodotto di qualità scadente, con una sceneggiatura inconsistente, banale e fin troppo scontata, una recitazione sempre sopra le righe, personaggi stereotipati e un taglio televisivo da soap opera da quattro soldi. Le tre protagoniste sono troppo belle e sexy per essere credibili come badanti. La caratterizzazione degli anziani alla casa di cura non è minimamente plausibile: passi che anche loro abbiano ancora voglia di divertirsi ma qui rasentiamo l’assurdo con vecchietti arzilli (alla Amici miei ) che fanno scherzi puerili come mettere il lassativo nelle tisane! Insomma, le gag comiche sono di bassissimo livello, al limite del ridicolo, anzi, lo superano di parecchio.

I pochi fondi e le difficoltà di realizzazione non possono essere una valida scusante. In molti altri casi abbiamo visto piccoli film indipendenti senza troppe pretese che si sono rivelati lavori discreti con qualche pecca ma buoni spunti di partenza. Ovviamente non è questo il caso de Le badanti. Dispiace molto non trovare nulla da salvare. Purtroppo si vede poco anche lo splendido paesaggio veneto, dove sono avvenute in gran parte le riprese ed è stata ambientata la vicenda.

Quella che forse nelle intenzioni voleva essere una favola, il racconto di come tre donne in difficoltà siano riuscite a farcela (con tanto di voce fuori campo) si rivela nei fatti un prodotto imbarazzante, quasi trash. Nella migliore delle ipotesi ci si annoia.


Al cinema dall’11 giugno.

"Jurassic World" ed il fattore "Wow!"

di Emanuela Andreocci

Come si fa a mantenere un grado di apparente e credibile imparzialità difronte al ritorno in pompa magna di un film che ha segnato la memoria cinematografica (e non solo) di chi scrive e di tutta una generazione?

Jurassic World di Colin Trevorrow riporta lo spettatore direttamente al 1993, al primo indimenticabile Jurassic Park, quello di Spielberg ma anche di John Hammond, padre indiscusso del parco. A distanza di ben 22 anni, parzialmente riempiti da altre due pellicole purtroppo lontane dai fasti della prima (Jurassic Park II - Il mondo perduto sempre di Spielberg del 1997 e Jurassic Park III di Joe Johnston del 2001), il parco di attrazioni riapre veramente le porte e si dimostra una macchina perfettamente oliata, funzionante ed efficiente sotto tutti i punti di vista.

I visitatori accorrono a migliaia ogni giorno ed il personale dipendente è sempre più qualificato, eppure Claire (Bryce Dallas Howard) deve comunque lottare per far quadrare i bilanci e trovare finanziatori che continuino a credere nel progetto. Il fine giustifica i mezzi: le attrazioni devono essere sempre più sorprendenti, anche perché ormai vedere semplicemente un dinosauro non sorprende più nessuno, i bambini ammirano gli stegosauri come elefanti allo zoo.  
La modificazione genetica aumenta il fattore "Wow!" e ha portato all'ultimo, terrificante esemplare: l'Indominus Rex, creato con formula segreta partendo dalla base del più famoso e impressionante carnivoro di tutti i tempi. Bigger, louder, more teeth.

Ovviamente, la storia insegna, ad un certo punto accade quello che tutti già immaginiamo: il recinto viene sfondato e l'Indominus Rex, a piede libero nel parco, semina il panico uccidendo chiunque trovi sul suo cammino. "Sta cercando il suo posto nella catena alimentare e forse è meglio che non lo trovi."

Owen Grady (Chris Pratt), l'esperto eroe di turno, è il domatore di Velociraptor il cui compito sarà quello di trovare e possibilmente salvare i nipoti di Claire (interpretati dai giovani Ty Simpkins e Nick Robinson), in visita al parco, e cercare un modo per fermare il pericoloso animale.

I rimandi al primo Jurassic Park (probabilmente grazie anche alla presenza di Spielberg come produttore esecutivo) sono innumerevoli e meritano di essere goduti e scoperti con il progredire della pellicola: dal tema di John Williams alla sala di raduno, dalle lotte tra dinosauri ai gadget ritrovati. Si sa già, ovviamente, quello che accade, eppure lo spettatore non può non osservare tutto attonito, con la bocca spalancata per la meraviglia o per la paura, non può non ammirare le stupende invenzioni di questo parco ultratecnologico. Dimenticate le jeep di una volta, l'esperienza nel nuovo parco è a 360°, completamente sinestetica. Peccato, forse, per l'uso del 3D, che poteva essere utilizzato in maniera più impattante concentrandosi maggiormente sui dinosauri, piuttosto che sui protagonisti o su elementi non rilevanti. 

Molto interessante anche l'idea del risvolto militare con tanto di colpo di stato: possono i velociraptor essere domati ed ammaestrati in modo tale da essere usati in guerra, come un vero e proprio esercito?

Inutile dilungarsi sulla meraviglia delle scenografie, inutile lodare le strepitose attrazioni e la maestosità di questo parco. Basti sapere che Jurassic World ha tutto quello che serve: intrattenimento, spettacolarità, adrenalina, humor, elementi incastrati tra loro con precisione chirurgica in modo tale da rendere la pellicola perfetta. What else?

In Italia il parco apre le porte l'11 giugno, iniziate a mettervi in fila!

  


martedì 9 giugno 2015

“Io, Arlecchino”: la riscoperta della Commedia dell’Arte

di Silvia Sottile

L’attore Giorgio Pasotti, noto al grande pubblico per i suoi ruoli in film e fiction televisive di successo, passa dietro la macchina da presa per dirigere a quattro mani, insieme a Matteo Bini, Io, Arlecchino. Per il loro debutto i due registi bergamaschi scelgono di attingere alla propria tradizione culturale portando sul grande schermo il personaggio di Arlecchino, maschera bergamasca della Commedia dell’Arte.

Paolo (Giorgio Pasotti), noto conduttore di un talk show televisivo pomeridiano, viene raggiunto a Roma da una telefonata: suo padre Giovanni (Roberto Herlitzka) è ricoverato in ospedale. Costretto a tornare nel piccolo villaggio medievale in provincia di Bergamo, Paolo scopre che il padre è gravemente malato. Giovanni, ex attore teatrale e famoso Arlecchino, vuole spendere gli ultimi mesi della sua vita continuando a recitare con la piccola compagnia teatrale del paese, mettendo in scena spettacoli della Commedia dell’Arte. Il ritorno al paese porterà Paolo a ricucire il rapporto col padre e con le sue origini, a ridefinire la sua identità, a riflettere su cosa vuole davvero dalla vita e a riscoprire il tesoro artistico del personaggio di Arlecchino, del quale si troverà a vestire i panni.

Si tratta di una commedia con venature drammatiche, dai toni delicati, che seguendo una trama semplice e lineare porta a commuoversi, sorridere e sicuramente riflettere sul valore dei legami familiari e con il proprio territorio. Il personaggio di Arlecchino con i “suoi guizzi, salti e lazzi” può essere visto come una metafora dell’uomo contemporaneo che recupera il suo passato e guarda al futuro con la sua tipica capacità di arrangiarsi e reinventarsi con forza, vitalità ed energia. Nel film possiamo infatti osservare quasi un passaggio di testimone tra padre e figlio. Paolo, riabbracciando l’importanza dei valori tradizionali e dei veri affetti si trova dunque a dover scegliere tra il freddo mondo televisivo della capitale o quello caldo e accogliente, semplice e vitale di una cittadina di provincia lontana dalla falsità della tv, grazie anche alla genuinità del teatro. Il contrasto forse è un po’ troppo marcato ma il film scorre piacevolmente, in maniera armoniosa, quasi come una favola moderna, con una regia pulita che ha l’intelligenza di non strafare, aiutata da bei paesaggi e musiche azzeccate.

Grande merito all’aspetto teatrale della sceneggiatura, all’abilità dei registi, sebbene alla loro prima esperienza (decisamente promossi), e soprattutto alla scelta del cast: Pasotti rende bene il tormento di un uomo alla riscoperta di se stesso; a  Lunetta Savino e Gianni Ferreri (nei panni di una coppia di attori teatrali amatoriali) è affidato l’elemento comico, con qualche battuta allegra e divertente che serve ad alleggerire l’atmosfera e a sdrammatizzare i toni. Ma quella che senza dubbio si è rivelata vincente è stata la decisione di affidare il ruolo di Giovanni  allo straordinario Roberto Herlitzka, capace di trascinare il film con la sua bravura nell’interpretare un anziano Arlecchino in fin di vita ma ancora pieno di vitalità. 

Io, Arlecchino, film delicato e a tratti commovente, sarà nelle nostre sale dall’11 giugno.

The Salvation: il western di una volta

di Emanuela Andreocci

Con The Salvation il regista danese Kristian Levring (sì, proprio lui, il fondatore di Dogma 95 insieme a Lars Von Trier, Thomas Vinterberg e Soren Kragh Jacobsen) porta in scena un western che, da una parte, guarda alla contemporaneità con l'utilizzo di almeno due degli attori più versatili e alla ribalta dei giorni nostri, dall'altra rimanda al western di una volta, quello di Ford, Leone e Kurosawa. Fin dall'inizio l'impronta è evidente: si coglie per esempio l'omaggio a Sentieri Selvaggi ed alla sua apertura sul mondo, al suo modo di rappresentare il paesaggio in un genere che si pensava morto o, quantomeno, dimenticato.


La storia è molto semplice e lineare, come il genere vuole, tutto si concentra sul tormento interiore dei protagonisti. Siamo nel 1870 e l'immigrato Jon (Mads Mikkelsen) accoglie moglie e figlio in America dopo anni di lontananza. Fatale, però, è la diligenza e l'incontro con gli uomini che pongono fine alla felicità appena riassaporata. Jon, accecato dal dolore, si vendica uccidendo il responsabile di una simile atrocità che però si scopre essere il fratello dello spietato colonnello e bandito Delarue (Jeffrey Dean Morgan) che già terrorizzava il villaggio di Black Creek e che ora è disposto a tutto per vendicare l'assassinio. Grazie anche all'aiuto indispensabile del fratello Peter (Mikael Persbrandt), Jon rispolvera la sua formazione di soldato e da pacifico coltivatore di terra si trasforma in un eroico vendicatore che vuole ristabilire l'ordine giusto delle cose. 

Anche le alte cariche del villaggio hanno paura di Delarue, ma non fanno niente per contrastarlo e, anzi, sottostanno alle sue barbariche volontà. Stessa sorte tocca anche alla "principessa" Madelaine (Eva Green), vedova del defunto diventata in tutto e per tutto proprietà del colonnello. Grande prova quella della bellissima e bravissima attrice: muta per un vecchio crimine subito, dà vita al suo personaggio esclusivamente tramite movimenti ed espressioni. 

La scelta degli attori, lo abbiamo già accennato, è vincente. Mikkelsen ed Eva Green, in particolare, hanno la possibilità di interpretare con facilità ed estrema credibilità qualsiasi personaggio, ma anche gli altri, inclusi Jonathan Pryce nel ruolo del sindaco becchino Keane ed Eric Cantona in quello de Il Corso, braccio destro di Delarue, sono perfetti per la parte.


La sequenza iniziale all'interno della diligenza è decisamente ben riuscita: il pathos è tangibile, così come l'ansia e la certezza di ciò che sta per succedere in un climax di paura mista ad impotenza. Prologo decisamente efficace, forse la parte migliore del film, ma soltanto perché ciò che viene dopo segue il più classico dei copioni. Niente di nuovo sul fronte occidentale, quindi, ma questo è un bene: Levring ha avuto la sensibilità, l'umiltà e sicuramente anche l'intelligenza di riportare sul grande schermo un genere senza reinterpretarlo soggettivamente, ma rendendogli un puro omaggio.

Il color ocra predominante, lo strazio consumato al chiar di luna, la polvere e la calura tangibile, il saloon, la tipica musica di accompagnamento, gli sguardi che non necessitano di dialoghi ed i personaggi legati ai ruoli che ognuno si aspetta rendono The Salvation un bel tuffo nel passato.


Dall'11 giugno al cinema.

      

martedì 2 giugno 2015

“Fuori dal coro”: esordio noir per il cuoco di De Niro

di Silvia Sottile

La storia più interessante di Fuori dal coro è quella dello stesso regista e sceneggiatore Sergio Misuraca, su cui in effetti si è puntato molto per la pubblicizzazione del film. Misuraca ha vissuto diversi anni a Los Angeles per inseguire il sogno di entrare nel mondo del cinema. Si è così  ritrovato a lavorare nel ristorante dei vip e a cucinare spaghetti aglio, olio e peperoncino per Robert De Niro. Tornato in Sicilia a causa dei documenti falsi, ha aperto un suo ristorante e finalmente ha provato a coronare in patria quel sogno cinematografico mai accantonato con la realizzazione di questo film totalmente siciliano, che rappresenta il suo debutto. Sicuramente da premiare la tenacia e la forza di volontà nonostante tutte le difficoltà del caso (i costi, i mancati sostegni pubblici, ecc.) ma tutto questo non basta a farci apprezzare un film che non porta nulla di nuovo nel panorama cinematografico italiano, ad eccezione del genere ma di sicuro non così ben sviluppato da risultare particolarmente interessante né tanto meno credibile.
Forse se Misuraca ci avesse raccontato la sua, di storia, sarebbe stato meglio. Invece no, mette in scena un mix di commedia, noir, pulp e splatter che alla fine non è né carne e né pesce e confonde solamente le idee allo spettatore, salvo risultare prevedibilissimo in tutte le svolte narrative che si susseguono in maniera fin troppo eccessiva spezzando di continuo il già flebile ritmo del racconto. Probabilmente la più grossa pecca è aver voluto mettere troppa carne sul fuoco non riuscendo  a gestirla in maniera uniforme.

Dario (Dario Raimondi) e Nicola (Alessio Barone) sono due giovani siciliani disoccupati che trascorrono le giornate tra spinelli e giri in motorino. Dario è laureato e in cambio di una raccomandazione per un posto di lavoro acconsente a svolgere un lavoretto per il personaggio più influente del paese, il “Professore”: portare in macchina una busta (contenente presunti documenti importanti) a Roma e consegnarla al poco raccomandabile slavo Pancev (Ivan Franek). A Roma però le cose non filano lisce come previsto perché la persona che doveva fare da tramite è Tony (Alessandro Schiavo), zio di Dario con cui non ci sono buoni rapporti da anni, ma soprattutto perché la busta non si trova. In una rocambolesca fuga da Pancev, Dario e Tony sono costretti a tornare in Sicilia dove si conclude la vicenda.

Dicevamo dunque che la scrittura non è omogenea, inficiata da troppi presunti colpi di scena per cambiare le carte in tavola che non risultano credibili e sono anche prevedibili in toto. La commistione di generi diventa in questo caso un’arma a doppio taglio: la storia, sebbene ci sia alla base la voglia di stupire, è tanto sconclusionata quanto scontata, infarcita di cliché già visti e rivisti sia riguardo alla sicilianità (e a tutti i suoi luoghi comuni), sia riguardo al genere thriller/noir. Se l’intento dichiarato di Misuraca era prendere spunto da Tarantino e Scorsese per costruire una storia pulp, possiamo dire che manca in pieno l’obiettivo: il risultato è un film che non decolla mai e sembra una grottesca e mal riuscita parodia dei maestri a cui voleva invece rendere omaggio.
I personaggi non hanno un minimo di spessore e risulta quindi difficile poter giudicare le varie interpretazioni degli attori, nessuna particolarmente brillante (a parte la straordinaria attrice siciliana Aurora Quattrocchi nel piccolo ruolo di Maria). Escludendo pochissime battute, affidate per lo più al simpatico Nicola/Alessio Barone, il lato comico si perde per strada virando in maniera un po’ troppo eccessiva sullo splatter.

Non bastano neanche i paesaggi siciliani né le musiche tradizionali a risollevare Fuori dal coro, al cinema dal 4 giugno. Tutt’al più viene voglia di andare al mare.