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mercoledì 19 febbraio 2014

"The LEGO movie": il meraviglioso elogio della creatività

di Emanuela Andreocci

È difficile, nel recensire The LEGO Movie, rendere appieno l'idea geniale alla base del film e l'incredibile risultato ottenuto da una pellicola interamente in animazione digitale 3D che non merita altro che essere vista ed apprezzata.
La trama, di per sè, rappresenta una garanzia in quanto affonda le radici nella più classica storia in stile fantasy epic: un comunissimo protagonista maschile (Emmet) che diventa eroe per caso, una bella ragazza (Wyldstyle) che lo aiuta e incoraggia nella missione, uno stregone (Vitruvius) che conosce la profezia che permetterà all'eroe e alla sua improvvisata compagnia di salvare il mondo dal cattivo di turno (Lord Business) grazie al "pezzo forte". Un plot evergreen, insomma, con del materiale da cui poter incessantemente attingere ma che sembra non rappresentare nessuna innovazione nel panorama cinematografico. Ed è qui, invece, che ci si sbaglia: i protagonisti di questa fantastica avventura, infatti, non sono in carne ed ossa, ma sono dei piccoli pupazzetti gialli, smontabili e dalla mobilità decisamente limitata! Con 3.863.484 mattoncini  LEGO e tre anni di lavoro per lo sviluppo e la produzione, i due registi/costruttori Phil Lord e Christopher Miller ed il loro altissimo cast tecnico hanno dato vita ad un prodotto unico che desta stupore e meraviglia, non solo nei bambini. 
Emmet, il protagonista, è il più comune degli omini LEGO: ha una faccia per niente particolare (!), è entusiasta nel prendere alla lettera tutte le istruzioni (da quello che prevede il perfetto buongiorno a quello per la demolizione di palazzi non in linea con le direttive aziendali), ha sempre il sorriso stampato addosso  e adora la canzone tormentone che non perde occasione di cantare. Tutto "è fantastico" se visto con i suoi occhi, e tutto è fantastico anche per lo spettatore che viene catapultato in mondi di mattoncini che la più fervida fantasia farebbe fatica ad immaginare. Ma il suo capo non è la brava persona che crede, ed il seguire sempre le istruzioni rischia di "incollarlo" alle proprie posizioni quando invece ci sono nuovi mondi da esplorare, tante persone interessanti anche se non stereotipate da conoscere e infinite combinazioni da sperimentare....
Non essendo stata utilizzata unicamente l'animazione computerizzata, ma anche una tecnica simile a quella della stop motion, i personaggi si muovono come se una mano invisibile li guidasse: non quindi in maniera fluida, ma proprio come farebbe qualsiasi pupazzetto LEGO mosso per gioco da un bambino. Ed è così che i capelli della femme fatale alla sua prima apparizione non si agitano dolcemente al vento ma si spostano sulla calotta prima verso destra poi verso sinistra, le piccole mani a pinza non si possono stringere ma soltanto incastrare ed i vestiti non si indossano ma si smontano e rimontano, esattamente come i mezzi di locomozione, le città e tutto il resto...
La pellicola è estremamente autoreferenziale (fa venire voglia di precipitarsi nel primo negozio disponibile), ma questo non dà assolutamente fastidio, tutt'altro: si apprezza incredibilmente come l'idea alla base di uno dei giochi più venduti possa coincidere con quella di un film unico, divertente, ironico, originale e, sicuramente, "costruttivo", un lungometraggio pubblicitario che diverte e centra in pieno l'obiettivo, un elogio della creatività in tutte le sue forme (in particolare solide!). Ogni dettaglio è pensato esclusivamente per il mondo dei LEGO, e lo stesso vale per la caratterizzazione dei personaggi, tra i quali spiccano certamente Batman e Poliduro/Politenero, il poliziotto dalla doppia personalità che è una delle figure più riuscite nel variegato mondo di esserini gialli che popolano il film.
The LEGO Movie è coerente fino alla fine, quando propone una spiegazione plausibile, ma non per questo meno magica, alle strepitose avventure vissute e ai meravigliosi luoghi esplorati: c'è un mastro costruttore nascosto in ognuno di noi!
Dal 20 febbraio nei nostri cinema.

domenica 16 febbraio 2014

"Storia d'inverno": è possibile amare tanto qualcuno da impedirgli di morire?

di Emanuela Andreocci

Non è detto che essere uno sceneggiatore di talento porti automaticamente a saper stare fisicamente dietro la macchina da presa, e questo crediamo sia quello che ha imparato a proprie spese (e anche a spese degli spettatori) Akira Goldsman, premio Oscar per A Beautiful Mind. 
Il suo esordio alla regia con Storia d'inverno, infatti, non è propriamente di quelli che rimarranno impressi nella storia del cinema contemporaneo, nonostante ci siano molteplici fattori che farebbero pensare il contrario: un cast ricco e variegato, una storia d'amore che trascende il tempo e lo spazio, una dolce favola magica in cui credere e qualche accorgimento tecnico iniziale (un'attraente fotografia in seppia, una dissolvenza interessante). Tutti questi elementi, che presi singolarmente sembrerebbero essere positivi, nel film dello sceneggiatore newyorkese si combinano in un mix mal riuscito che non riesce ad esprimersi appieno e a suscitare l'emozione necessaria.
Il vero problema della pellicola, infatti, si insinua nella storia: una romantica favola d'amore (ci sono stelle e angeli, così per lo meno la voce over ad inizio film riferisce al pubblico) dovrebbe far sognare e commuovere, lo spettatore dovrebbe emozionarsi insieme ai protagonisti, ma questo non succede. 
Peter Lake (Colin Farrell) è un moderno Mosè: lasciato dai genitori in balia della corrente per permettergli di salvarsi, incontra l'amore della sua vita nel 1916 quando, ormai grande e abile ladro, si imbatte nelle bella Beverly Penn (Brown Findlay) durante l'ennesima rapina. Il problema non è la professione di lui, ma la malattia di lei: ha una forma mortale di tubercolosi che non le permetterà di vivere ancora a lungo. La trama, che si sviluppa mettendo troppa carne al fuoco, non si esaurisce con questi elementi: dobbiamo infatti aggiungere il rancore dell demone Pearle Soames (l'ex mentore di Peter interpretato da Russell Crowe) che risponde al suo "capo" Lucifero (Will Smith), un cavallo custode che si palesa nel momento del bisogno e che fa volare il protagonista grazie alle sue ali di luce e l'incontro ai giorni nostri (2014) con una giovane madre (Jennifer Connelly) e la sua figlioletta malata. Il personaggio di Farrell è destinato a compiere il suo miracolo con una ragazza dai capelli rossi e questo lo porterà ad esprimere il suo amore in un percorso di oltre 100 anni, dove i ricordi pian piano affioreranno come un puzzle da costruire lentamente. Il male si può vincere, ma per farlo serve tanto bene.
Pollice in su per il protagonista maschile (capelli a parte, è convincente nel suo essere un romantico convinto, un appassionato della vita dall'occhio languido intriso d'amore), per il cavallo e per la colonna sonora; pollice decisamente verso, invece, per gli altri due big della pellicola: Will Smith nei panni di Lucifero rasenta la parodia e, effettivamente, fa ridere lo spettatore alla sua prima apparizione (ma in un film del genere la risata non è l'emozione richiesta), mentre Russell Crowe, ben più presente, offre le sue sembianze ad un personaggio assolutamente mal concepito, un demone senza arte nè parte che risulta ridicolo. Pollice verso anche per il tema portante della luce che collega le persone al di là del tempo e dello spazio: buona l'idea, ma si perde nel suo essere sostenuta da alcune immagini evocative particolari e da una una voce off che ricorda allo spettatore, con le dovute differenze, la serie televisiva Touch (di certo non una delle migliori degli ultimi tempi).
Peccato: l'amore che travalica persone, tempi e spazi è un must che non dovrebbe mai deludere. 

mercoledì 12 febbraio 2014

"Cercasi Cenerentola": un musical da vedere immantinente!


di Emanuela Andreocci

Bisogna ammetterlo: è decisamente strano accostarsi al nuovo spettacolo della Compagnia della Rancia sapendo che Manuel Frattini non è protagonista assoluto ma divide trono e scettro con un altro personaggio maschile, per di più non un "tipo da musical". La diffidenza iniziale, però, viene fugata fin dall'inizio, anzi ancor prima se consideriamo la voce off a sipario chiuso: Paolo Ruffini è uno scanzonato principe azzurro in versione 2.0, un principe che non fa serenate ma rap, un principe non in calzamaglia ma in tuta e scarpe da ginnastica, un principe che non parla forbito ma toscano (d'altronde il suo regno, Microbia, si colloca tra il Danubio e l'Arno, ma è decisamente più vicino a quest'ultimo!).
Cercasi Cenerentola è quindi l'ennesimo centro non solo per la Compagnia della Rancia (che ha festeggiato i 30 anni di attività), ma anche per Saverio Marconi  (regia) e Stefano D'Orazio (liriche): i due, una garanzia nel settore, hanno lavorato insieme sul testo costruendo uno spettacolo frizzante e vivace, mai banale, che alterna momenti assolutamente esilaranti (le risate si sprecano non solo tra il pubblico/popolo, ma anche a palazzo!) ad altri leggermente più introspettivi, come tradizione vuole.
La vera novità, però, l'idea geniale che dà una marcia in più allo spettacolo è proprio quella di unire due protagonisti che apparentemente non hanno nulla in comune e di invertirli nei ruoli ipotetici che il pubblico avrebbe, invece, loro assegnato: Ruffini (attore e presentatore) nei panni dell'azzurrissimo principe e Frattini (mister musical) in quelli del fido consigliere Rodrigo. I due, insieme, costituiscono una coppia che spacca "a bestia" perchè si completano a vicenda: mentre il secondo, lo sappiamo, sa far tutto e ai massimi livelli, il primo compensa quel poco che, forse, gli manca (e che comunque il ruolo, cucito su di lui alla perfezione, non richiede) con la simpatia che lo contraddistingue, con una parlantina sfrenata e incontenibile e con ottime doti di improvvisazione.
Accanto a loro, ovviamente, abbiamo gli altri personaggi della favola, interpreti dalle più che evidenti qualità vocali e fisiche, in particolare una giovanissima Cenerentola (Beatrice Baldaccini, scelta fra più di 500 aspiranti al ruolo), la sgrammaticata matrigna in stile Mazzamauro/signorina Silvani (Laura di Mauro), le due sorellastre Genoveffa e Anastasia (Roberta Miolla e Silvia di Stefano, che nei rispettivi assoli per conquistare il principe rivelano tutta la loro bravura) e la fata Clementina (Claudia Campolongo). 

Cercasi Cenerentola è uno spettacolo che entra subito nel cuore degli spettatori: le musiche sono estremamente coinvolgenti (siamo sicuri che "Principessa" diventerà ben presto un gradito tormentone), la scenografia è forse più semplice che in altri spettacoli ma assolutamente funzionale con qualche dettaglio di regia che stupisce (simpatica l'idea ricorrente del telefono, romanticissimo l'incontro al chiar di luna tra il principe e Cenerentola, magici i cambi d'abito e le trasformazioni) ed i costumi sono originali e variegati, con una buona dose di paillettes e strass che non guastano mai (scintillante anche Frattini nel suo assolo di tip tap sulle note di "Superstar"). Si tratta, quindi, di un musical che rispetta la tradizione del genere ma, mentre offre uno sguardo al passato, si rivolge anche al  presente, strizzando l'occhio allo spettatore che diventa suddito e protagonista.

Cercasi Cenerentola è al teatro Brancaccio di Roma fino al 23 febbraio: merita di essere visto immantinente!

domenica 2 febbraio 2014

"12 anni schiavo": ordinaria storia di atroce ingiustizia umana

di Emanuela Andreocci

12 anni schiavo racconta il duro, difficile e tormentato percorso di un uomo, Solomon Northup (Chiwetel Ejiofor) ed il suo attaccamento alla vita nonostante le atroci difficoltà incontrate nel suo percorso. 
Il terzo film di Steve McQueen, autore dalla forte impronta connotativa nelle sue pellicole come ha dimostrato con Hunger e Shame, è basato sulla memorabile autobiografia che a metà dell'Ottocento ha rivelato al pubblico americano i retroscena dello schiavismo: Solomon, infatti, da cittadino libero di Saratoga, diventa uno schiavo negro della Georgia. Ingannato, rapito e venduto, passa di padrone in padrone come un animale da soma, incontrando nel suo percorso uomini bianchi più o meno predisposti all'ascolto dei diritti altrui. 
Paul Giamatti è il mercante di schiavi senza cuore che lo vende al suo primo padrone, un Benedict Cumberbatch che capisce le potenzialità del suo schiavo ma che non può salvarlo da un destino già annunciato e che quindi preferisce cederlo a Edwin Epps (Michael Fassbender), uno schiavista feroce, senza cuore ed accecato dall'ira che renderà la vita di Solomon un inferno. 
Un po' per la sua straordinaria forza d'animo, che riesce a mantenere nonostante le terribili avversità, un po' per alcuni rapporti che crea con altri nella sua stessa posizione (in particolare con la giovane Patsey, interpretata da Lupita Nyong'o), lo sfortunato protagonista non smette di sperare che un giorno potrà congiungersi nuovamente alla sua famiglia tornando ad essere l'uomo libero che è sempre stato. E alla fine di un lungo, lunghissimo periodo di soprusi, scelte difficili e sofferenze, l'incontro con il buon carpentiere Samuel Bass (Brad Pitt) potrà forse porre fine, una volta per tutte, alla sua agonia...
Il film di McQueen candidato a 9 premi Oscar (e già vincitore del Golden Globe per il miglior dramma) è un lavoro impietoso che mette a dura prova lo spettatore quanto il protagonista, non risparmiando sofferenze ma indugiando sul tempo e i dolori: i 12 anni di schiavitù vissuti da Solomon vengono spesso resi a livello registico con lunghe inquadrature statiche, senza dialoghi, con il solo scopo di mostrare la sofferenza dell'inerte protagonista o dei malcapitati come lui (assolutamente toccante, a tal proposito, la prolungata scena in cui viene lasciato per diversi minuti, forse ore, col cappio al collo ed i piedi che sfiorano appena con le punte il suolo fangoso). 
Tra dettagli e inquadrature che rendono visivamente il peso dei dolori provocati da bastonate e frustrate, tra campi di cotone e di canne e balli grotteschi, si articola la colonna sonora del premio Oscar Hans Zimmer fatta di percussioni e ritmi evocativi della Louisiana, "un mondo pieno di natura, di grilli e di acqua, in completo contrasto con la città in cui Solomon ha sempre vissuto", musiche che a volte si prolungano da una sequenza a quella successiva senza esser necessariamente motivate dal punto di vista diegetico e che entrano nel cuore del pubblico che vi riconosce l'ultimo baluardo di bontà e speranza di un mondo ormai sprofondato nell'odio più profondo.
Lo spettatore, insieme a Solomon, osserva e sopporta con stoica caparbietà le tremende vicissitudini finché l'attenta e onnipresente regia di McQuenn non concede il raggiungimento dell'apice di un climax non più sostenibile e, quindi, liberatorio.
Nelle sale dal 20 febbraio.

sabato 1 febbraio 2014

"Smetto quando voglio": l'ottimo esordio di Sydney Sibilia e dei suoi super ricercatori!

di Emanuela Andreocci

La vita universitaria (prima, durante, dopo) è un terreno sicuramente fertile e certamente già esplorato nel panorama cinematografico italiano (viene in mente, ad esempio, il recente C'è chi dice no di Giambattista Avellino, commedia sulla tutela della meritocrazia), eppure Smetto quando voglio, film d'esordio del giovane Sydney Sibilia, ha una marcia in più non solo in riferimento all'argomento trattato, ma anche nel più vasto orizzonte della commedia italiana.
Tanti, veramente, i punti di forza di questa pellicola fresca, originale ed assolutamente divertente: il primo è proprio la comicità genuina, verace e sincera che contraddistingue tutto il film senza mai perdere mordente, anzi crescendo delicatamente per tutta la sua durata; il secondo, complementare al primo, è la scelta degli attori, tutti più o meno giovani ma conosciuti e perfetti nel ruolo; il terzo è costituito da una regia che, nell'ambito di una commedia che più commedia non si può, ammicca ad un altro tipo di cinema "alto" con cascate di soldi degne di Scarface sparse qua e là; il quarto è dato da una colonna sonora che, a partire da Why don't you get a job? di The Offspring, caratterizza tutto il film donandogli vivacità e cadenzandolo.
I protagonisti, nei loro rispettivi campi, sono dei geni: Pietro Zinni (Edoardo Leo) è un ricercatore di neurobiologia con idee innovative non adeguatamente supportate da un professore incompetente, Mattia Argeri (Valerio Aprea) e Giorgio Sironi (Lorenzo Lavia) sono dei latinisti, benzinai sotto padrone cingalese di cui hanno imparato la lingua ("Conoscendo il sanscrito, tiri giù tutto il ceppo...!"), Arturo Frantini (Paolo Calabresi) è un archeologo classico, supervisiona ogni scavo romano ma non ha i soldi per comprarsi il pranzo, Bartolomeo Bonelli (Libero De Rienzo) è un economista incastrato in un circo, Alberto Petrelli (Stefano Fresi), è chimico ma fa il lavapiatti in un ristorante cinese ed infine Andrea De Sanctis (Pietro Sermonti) è un antropologo troppo qualificato per poter lavorare in uno sfasciacarrozze (serve aver sperimentato la vita di strada!). Tutti i nostri "eroi" sono quindi costretti in vite di ripiego, professioni che non rendono loro giustizia e che, oltretutto, non permettono loro di vivere dignitosamente. Perchè, allora, non utilizzare le loro menti brillanti fattivamente per ottenere soldi, successi e riconoscimenti in breve tempo? Ad avere la geniale illuminazione è Pietro: grazie ad un suo studente bugiardo, sfrontato e svogliato, viene introdotto al proficuo mondo delle discoteche e della droga. In men che non si dica, convincendo tutti i suoi amici, diventa leader della banda di ricercatori: ognuno ha il suo specifico, insostituibile compito ed in breve tempo immettono nel giro la migliore droga di sempre, pura e momentaneamente non illegale. Tutto sembra filare liscio e i soldi fioccano, ma i bravi ragazzi non hanno fatto i conti né con Giulia (Valeria Solarino), assistente sociale e compagna di Pietro, né con il Murena (Neri Marcorè), che ha il controllo dello spaccio di droga su tutto il basso Lazio...
Lo slogan basato sul gioco di parole "Meglio ricercati che ricercatori" è geniale e la caratterizzazione di ogni personaggio è una prova di evidente bravura a livello di interpretazione e sceneggiatura. Nonostante si tratti di stereotipi, i protagonisti non risultano assolutamente tali e divertono nel mix delle loro diversità unite per il bene comune: i nostrani Avengers sfruttano i loro superpoteri per la sopravvivenza. 
Dal 6 febbraio nei cinema: le risate sono assicurate!