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giovedì 25 settembre 2014

"Posh" - Storie di ordinaria ingiustizia

di Luca Cardarelli

Ci sono film destinati ad essere dimenticati, e poi ci sono film che invece, sin dal primo fotogramma, sono destinati a rimanerti impressi nell'anima e nel cervello come il marchio a fuoco che si pratica sui cavalli. Posh, l'adattamento cinematografico della Piece teatrale di Laura Wade, diretto dalla cineasta danese Lone Scherfig (An Education) è uno dei film appartenenti alla seconda categoria. 

Un gruppo di ragazzi provenienti da famiglie "bene", o addirittura di "alto lignaggio", studenti della più prestigiosa Università del mondo, Oxford, si radunano in un club che non è la classica confraternita che siamo stati abituati a vedere nei "College movies" americani come Animal House o il recentissimo Bad Neighbors. Qui si tratta di una vera e propria Lobby, quasi una setta segreta, i cui appartenenti si distinguono per meriti sia scolastici che di estrazione sociale: il Riot Club, fondato sulla fine diciottesimo secolo da Lord Riot (nomen omen, è proprio il caso di sottolinearlo). Regole del Riot Club: non parlarne con chi non può e non deve farne parte; drogarsi e ubriacarsi fino, quasi, alla morte. Sesso selvaggio e promiscuo. Caciara. Zero rispetto per il ceto popolare medio. E' così che va. E' cosi che si deve fare. E' il Riot Club, bellezza. 
Protetti dall'aura impenetrabile del loro storico club i 10 ragazzotti di buona, buonissima famiglia ne combinano di ogni, fino ad arrivare al punto di non ritorno: la cena che inaugura il nuovo anno accademico. 8 membri storici e 2 "novellini" in un modesto risto-pub della campagna inglese (perchè banditi in tutti gli altri posti più vicini ad Oxford) il cui proprietario fa di tutto per soddisfare le loro bizzarre richieste. Ed è qui che assistiamo ad una delle più brutali scene di violenza "da branco" sin dai tempi, forse, di Arancia Meccanica nella visita che i Drughi fanno allo scrittore e alla sua gentil Signora. Il Motivo: "tanto abbiamo i soldi per permetterti di pagare i danni". 

Il Club ci viene dipinto da Lone Schergig come una sorta di preparazione alla vita che affronteranno una volta fuori da Oxford i 10 rampolli protagonisti. Ed è brava la Scherfig a contrapporre questi dieci rampolli alle persone "normali", identificate per l'occasione dall'oste e da Lauren (Holliday Grainger), che incrocerà, anche se per poco, il proprio cuore con Miles (Max Irons), forse il più "normale" tra i dieci viziatelli. 

Un film duro che cela quella rassegnazione che proviamo noi comuni mortali quando abbiamo a che fare con chi vive nel lusso non curandosi della società che gli sta intorno. Sono loro, i Posh, l'eccezione, ma vivono pensando di essere la regola. Il finale, poi, è l'esaltazione del senso di rassegnazione sopra accennato. Così va la vita. C'è chi, nonostante tutto, conserverà sempre, qualunque cosa combini, un posto in prima fila.


Nelle sale dal 25 settembre.

sabato 13 settembre 2014

“The Giver: il mondo di Jonas”, ovvero teniamoci ciò che già abbiamo.

di Carlo Anderlini

“I have a dream”, pensava Jeff Bridges venti anni fa, dopo aver letto il libro The Giver  (1993) della statunitense Lois Lowry, in cui si racconta la ribellione esistenziale di un adolescente residente in una Comunità totalitaria fortemente gerarchica, guidata da una leader carismatica, che con pugno reazionario non tollera dissidenti né pensiero indipendente e che si afferma tramite un progressivo e costante plagio mentale dei cittadini.  Ed ora Jeff, l’indimenticato Drugo de Il grande Lebowski, ha realizzato il sogno di produrre e interpretare sul grande schermo il primo volume (11 mln di copie vendute, traduzione in 30 lingue, vincitore della prestigiosa Newbery Medal) di quella quadrilogia per ragazzi distopica e post-apocalittica che comprende, poi, La Rivincita, Il Messaggero, Il Figlio.
Dopo la Rovina dell’umanità avvenuta decenni prima, gli umani vivono ora in una comunità che, al fine di evitare ulteriori future catastrofi, ha scientificamente eliminato  i ricordi, i sentimenti, le emozioni, il dolore, il sesso, le stagioni, i colori, il linguaggio articolato, le differenze sociali, le libertà individuali, la possibilità di scelta. Lo Stato ordina senza spiegare, il cittadino esegue senza porsi domande. Tutto è tranquillo, asettico, volutamente monotono, apparentemente perfetto.

In questo fredda Pleasantville (aggancio inevitabile) Jonas e gli altri dodicenni affrontano  la Cerimonia dei 12 anni nella quale il Comitato degli anziani assegna a ciascuno di essi il tipo di lavoro che dovrà svolgere per tutta la vita. Unicamente ad un solo di loro, poi, cioè a quello che si è distinto per la capacità di "vedere oltre", il Comitato assegna talvolta la successione nell’ incarico di Custode delle Memorie dell’Umanità.
E stavolta il prestigioso incarico tocca a Jonas (l’acerbo Brenton Thwaites), al quale viene assegnato il compito di recarsi periodicamente nella tetra dimora del vecchio Custode (un cupo ed esausto Jeff Bridges, ora nel nuovo ruolo di Donatore) per apprendere progressivamente (ma custodire poi come un assoluto segreto) come l’umanità viveva nel mondo oramai scomparso. Quel vecchio, consigliere della Comunità, è l’unico a detenere nella sua mente la loro storia proibita, dono e maledizione al tempo stesso, e questo lo rende rispettato e temuto.

Il regista australiano Philip Noyce (Ore 10 calma piatta, Il collezionista di ossa) conduce per mano i due a rapportarsi, a confidarsi, a scontrarsi e a compattarsi; ora è Jonas, come novello giovane Holden, a prendere progressivamente conoscenza e coscienza. Che significa essere vivi? Le passioni sono solo malattie? Il fine giustifica i mezzi? Come agiscono le famiglie formate in laboratorio? Qual è la sorte che la Comunità assegna agli anziani? Meglio sapere ed essere felici/infelici o non sapere ed essere neutrali? E’ giusto essere tutti assolutamente uguali? Cercare ciascuno il proprio orizzonte o fermarsi ai confini da altri stabiliti? A Jonas, per la prima volta, il Donatore (come un Citizen Kane pregno di crudo dolore) consente di fare simili domande.
Le risposte che riceve gli consentono di iniziare a ricordare: alberi su colline ricoperte di neve, capelli al vento, lontane risate; vede per la prima volta pareti piene di oggetti chiamati libri, ma vede anche guerra e tanto dolore.  E’ solo il primo assaggio dell’ infatuazione che Jonas proverà per quel qualcosa che è stato perso, quel qualcosa che sta oltre quel confine che Jonas vorrà ad ogni costo attraversare per aprire gli occhi e vederne i colori. Farà a poco a poco scoperte meravigliose ed angosciose e coinvolgerà nelle sue avventure i suoi amici Fiona (Odeya Rush) e Asher (Cameron Monaghan). Il sistema (impersonificato da una agghiacciante Meryl Streep) lo contrasterà e cercherà di “perderlo”.

La trasposizione cinematografica è tecnicamente abile ed equilibrata nell’affrontare il percorso di maturazione del protagonista, il suo passaggio dal non posso al potrei al voglio: voler sapere cosa è il bene e cosa è il male e non accontentarsi della ingegnerizzazione delle emozioni che conferiscono solo insulsa tranquillità. Sfiora anche temi delicati come quello dell’ eutanasia, prendendo posizione e inquadrandola in una ridefinizione omicida. Le lanterne di carta che si alzano verso il cielo e le accattivanti note di “Silent night” trainano furbescamente ad una rimeditazione sulla necessità della fede, già soffocata dalla Comunità. Abile, il regista, anche nel traghettare l’amicizia di Jonas per Fiona dalla delicatezza, all’inquietudine, al sentimento amoroso. The Giver constata, senza dare risposte, che quando le persone hanno la libertà di scegliere, scelgono male, ma anche che la grande Utopia (vivere in un posto bello, senza odio e instabilità) non può esistere e che il tentativo di realizzarla può dar luogo solo a una aberrazione orwelliana.

Film ambizioso dunque, che investe problematiche comportamentali, sessuali, religiose, politiche. Eccessive, a nostro parere. Qualche scorciatoia frettolosa e qualche furbata da establishment. Meno intenso e potente del libro, anche se travisato da spettacolari effetti speciali. La casa-caverna sulla scogliera in cui vive il Donatore, l’ologramma onnipresente del Supremo Capo, l’atmosfera inquietante della grande riunione allo stadio, il bacio tra Jonas e Fiona, sono da post-it ma non da antologia. La monotonia del contesto distopico contagia talvolta lo spettatore. L’uso del desaturato e il progressivo riaffiorare del colore sono soluzioni già viste in altri film, anche se qui si indossano alla vicenda con discreta eleganza. Jonas vince ma non convince. Gli effetti speciali nell’ inseguimento finale fanno deragliare la compattezza della storia, così come vi è caduta di stile quando si infiltrano flash-back delle vicende di Tien-an-men, della primavera araba e di Nelson Mandela. Anche l’uso della voce fuori campo non sempre si rivela necessaria. Ad eccezione dei Premi Oscar Meryl e Jeff, alcuni attori stentano poi a dare corpo ai loro personaggi. Girato interamente negli studi di Cape Town e nelle location sudafricane, The Giver è un film che si può vedere, dunque, alla fine dell’estate, in attesa dell’ arrivo della cavalleria cinematografica autunnale.