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martedì 31 gennaio 2017

“Smetto quando voglio – Masterclass”: la banda dei ricercatori è tornata!

di Silvia Sottile

Dopo il grande ed inaspettato successo di pubblico e critica ottenuto con Smetto quando voglio (2014), suo film d’esordio, il regista Sydney Sibilia tenta un esperimento mai visto in Italia: girare due sequel in contemporanea per dare vita ad una trilogia cinematografica sulla scia dei film americani degli anni ’80, da cui, tra l’altro, trae grande ispirazione.

La banda dei ricercatori è dunque tornata. I nostri geniali laureati, che in mancanza di altre opportunità avevano creato una nuova droga divenendo spacciatori, in Smetto quando voglio – Masterclass  lavorano dalla parte della giustizia. Avevamo lasciato Pietro Zinni (Edoardo Leo) in carcere dopo un patteggiamento. Qui viene contattato dall’ispettore Paola Coletti (Greta Scarano) che gli propone – in  cambio della fedina penale pulita – di rimettere in piedi la banda per contrastare la crescita esponenziale delle smart drugs. Per un compito del genere servono nuove leve e così al neurobiologo (Leo), al chimico (Stefano Fresi), ai latinisti (Valerio Aprea e Lorenzo Lavia), all’archeologo (Paolo Calabresi), all’economista (Libero De Rienzo) e all’antropologo (Pietro Sermonti), si aggiungono l’avvocato esperto in diritto canonico (Rosario Lisma) e due “cervelli in fuga”: l’anatomista (Marco Bonini) e l’ingegnere meccatronico (Giampaolo Morelli). Nel cast anche Valeria Solarino e Luigi Lo Cascio.

Pur venendo fisiologicamente meno l’originalità del primo film (del resto ormai sappiamo di cosa si tratta), Smetto quando voglio – Masterclass è un sequel che ha ancora molto da dire e lo fa reinventandosi  grazie ad una inedita commistione di generi: da una parte la classica commedia all’italiana che prende spunto da una situazione di disagio sociale per poi far ridere in maniera tragicomica, dall’altra l’action movie americano degli anni ’70, ’80 e ’90 (con una predilezione per i poliziotteschi). L’abilità di Sibilia sta proprio nel trovare il giusto mix che rende la pellicola un divertentissimo susseguirsi di scene destinate a diventare cult: dalla corsa per Roma con i sidecar nazisti (ogni riferimento a Indiana Jones non è assolutamente casuale) all’assalto al treno (omaggio a Ritorno al futuro – Parte III) che ha visto coinvolti numerosi stuntman a dimostrazione dell’enorme sforzo produttivo fatto. Parecchie anche le aperte citazioni ad altre riconoscibili pellicole rimaste nel nostro immaginario, tra cui i film della saga di James Bond. Il tutto risulta armoniosamente amalgamato, mantenendo sempre un registro ironico grazie ad una scrittura attenta e precisa e ad un montaggio innovativo. E alla fine viene naturale provare empatia per i protagonisti, degli intellettuali che non riescono a spendere il loro sapere e si sono reiventati. L’importante è tener presente che siamo sempre in un ambito decisamente surreale,  cosa che viene messa in chiaro fin dall’inizio.

Il cast è eccellente, anche se per forza di cose, trattandosi di un film corale, qualche personaggio risulta un po’ sacrificato; dal punto di vista tecnico segnaliamo la fotografia vivida, quasi psichedelica, dai colori sgargianti e la colonna sonora adrenalinica, che dà la carica, realizzata da Michele Braga, reduce dal grande successo di Lo chiamavano Jeeg Robot che gli è valso il David di Donatello.

Smetto quando voglio – Masterclass, nelle nostre sale dal 2 febbraio, è una fresca e frizzante commedia d’azione. Questo secondo capitolo della saga si rivela esilarante almeno quanto il primo e lascia nello spettatore una voglia incredibile di vedere il terzo e ultimo (attualmente in post-produzione) che si  intitolerà Smetto quando voglio – Ad Honorem.

venerdì 20 gennaio 2017

“Arrival”: fantascienza d’autore

di Silvia Sottile

Presentato in concorso alla 73^ Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, Arrival di Denis Villeneuve – basato sul racconto Storia della tua vita di Ted Chiang – è indubbiamente molto più di un semplice film di fantascienza.

Sulla Terra arrivano dodici enormi astronavi aliene, dalla forma simile a un guscio. Mentre il mondo si interroga con crescente allarmismo sulle intenzioni di questi esseri “eptapodi” (in quanto dotati di sette arti), viene affidato all’esperta linguista Louise Banks (Amy Adams) il compito di provare a comunicare con gli alieni proprio per comprendere il motivo della loro presenza. Di questa speciale squadra investigativa fanno parte anche il fisico teorico Ian Donnelly (Jeremy Renner) e il colonnello Weber (il premio Oscar Forest Whitaker) dell’esercito americano. Non ci addentriamo ulteriormente nella trama per evitare qualsiasi rischio di spoiler.

La pellicola parte da un presupposto che non è certo nuovo nel cinema di fantascienza, ma l’abilità di Villeneuve sta nell’andare oltre, creando uno sci-fi intimo e riflessivo, quasi filosofico eppure semplice e immediato nella comprensione, che fa leva sulle emozioni.

Si colgono immediatamente varie contaminazioni cinematografiche provenienti principalmente da Incontri ravvicinati del terzo tipo di Spielberg e Contact di Zemeckis, ma anche in parte dai più recenti Gravity di Cuaròn e Interstellar di Nolan, input però che sono sapientemente mixati e rielaborati in maniera originale e moderna, del tutto personale e decisamente autoriale. Il risultato è una pellicola che coinvolge e affascina lo spettatore, spingendolo anche a riflettere, a conferma del grande talento del regista canadese.

Dal punto di vista tecnico il lavoro è stato impeccabile, soprattutto a livello visivo, grazie alla fotografia di Bradford Young.

Il cast si mostra all’altezza, ma su tutti svetta la straordinaria e intensa interpretazione di Amy Adams, capace di recitare anche solo con lo sguardo, in cerca di risposte a domande di vitale importanza. I suoi occhi limpidi, colmi di stupore, esprimono al contempo profonda sofferenza e tutto l’amore che un essere umano è in grado di provare. Ci auguriamo che arrivi per lei la sesta nomination agli Oscar a coronare un anno, il 2016, che l’ha vista protagonista anche del bellissimo Animali Notturni  di Tom Ford.

Arrival, al cinema dal 19 gennaio, è uno splendido film di fantascienza che commuove ed emoziona.

venerdì 13 gennaio 2017

“Silence”: Scorsese esplora il rapporto dell’uomo con la fede

di Silvia Sottile

Il regista premio Oscar Martin Scorsese nel corso della sua lunga e gloriosa carriera ha messo spesso al centro delle sue opere argomenti e tematiche di natura fortemente religiosa, come ad esempio nel controverso L’ultima tentazione di Cristo (1988) e in Kundun (1997), ma ne troviamo comunque tracce in gran parte della sua filmografia.
Scorsese ha impiegato quasi trent’anni per realizzare Silence, basato sull’omonimo romanzo dello scrittore giapponese di fede cattolica Shusaku Endo. Con questo film il regista prova ad esplorare il rapporto dell’uomo con la fede ed in particolare esamina il problema spirituale e religioso del silenzio di Dio di fronte alle sofferenze umane.

La storia di questa attesissima pellicola sulla fede e la religione racconta del viaggio (sia fisico che spirituale) che due giovani missionari portoghesi intraprendono per raggiungere il Giappone alla ricerca del loro mentore scomparso, padre Ferreira (Liam Neeson), non credendo alle voci che lo danno convertito al buddismo dopo aver abiurato il cristianesimo. Si tratta di un percorso irto di pericoli e difficoltà perché in quel periodo (XVII secolo) in Giappone era in atto una violentissima inquisizione che sottoponeva a persecuzioni e torture tutti coloro che si professavano cristiani, costringendoli  all’apostasia (ovvero a rinnegare la propria fede) o ad essere condannati ad una morte lenta e dolorosa. Silence segue i due giovani preti gesuiti, padre Rodrigues (Andrew Garfield) e padre Garupe (Adam Driver), che nel corso della loro ricerca si ritrovano ad esercitare il loro ministero presso gli abitanti di alcuni villaggi giapponesi perseguitati per il loro credo religioso.

Silence è un’opera fortemente intrisa di spiritualità, tanto da farne il suo cuore pulsante. Sicuramente non è un film per tutti, è ostico, rigoroso e molto lungo (quasi tre ore). Oltretutto il ritmo è particolarmente lento, cosa che appesantisce ulteriormente la visione, rendendola difficile e quasi di nicchia. Eppure Silence non lascia certo indifferenti, anzi: è intenso, intimo, profondo; i temi importanti e carichi di interesse emotivo che vengono eviscerati fanno riflettere anche dopo la visione, che lascia aperti molti dubbi e interrogativi che si prestano a letture differenti e diverse interpretazioni anche in base all’animo dello spettatore (e al suo essere credente o meno). Merito naturalmente della sapiente regia di Scorsese che cambia spesso prospettiva, sottolineando non solo l’aspetto intimo della fede ma anche l’utilizzo della religione da parte del potere, con un’accurata analisi di quel particolare periodo storico.

La ricostruzione impeccabile dei villaggi rurali giapponesi del XVII secolo è opera del nostro  straordinario Dante Ferretti, scenografo tre volte premio Oscar, giunto alla nona collaborazione con Scorsese. Perfetta la colonna sonora ad opera dei coniugi Kluge che fa un uso magistrale anche del silenzio; la fotografia di Rodrigo Prieto toglie il fiato e riesce a far emergere la bellezza dei paesaggi. Anche la montatrice Thelma Schoonmaker, vincitrice di tre Oscar, è una storica collaboratrice del regista ma questa volta forse la scelta di un montaggio così poco dinamico non è stata delle più azzeccate. Il cast invece è dei migliori, in particolare il protagonista Andrew Garfield, grazie alla sua intensità e alla sua grande capacità espressiva, regala un ottimo ritratto psicologico di Padre Rodrigues e dimostra di essere maturato dai tempi in cui interpretava Spider-Man. A breve lo vedremo anche in Hacksaw Ridge di Mel Gibson.

Silence, nelle nostre sale dal 12 gennaio, non è un film esente da difetti. Alcune immagini sono molto forti, come quando la camera indugia troppo sulle macabre scene di tortura o addirittura post mortem; il personaggio di Kichijiro (Yosuke Kubozuka) diventa a poco a poco quasi caricaturale tanto da rasentare involontariamente il ridicolo, senza dimenticare la durata eccessiva, il ritmo pesante, alcuni passaggi oscuri e contorti. Eppure questo film regala alcuni momenti di grande cinema, è esteticamente meraviglioso, fa davvero riflettere sul rapporto dell’uomo con la fede e tocca profondamente l’anima.

lunedì 2 gennaio 2017

"Il GGG - Il Grande Gigante Gentile" di Spielberg conquista occhi e cuore

di Emanuela Andreocci

Dall'incontro tra due dei più grandi narratori dell'ultimo secolo - Roald Dahl (1916-1990) e Steven Spielberg - non potevamo che immaginarci un prodotto di alti livelli, infatti Il GGG - Il Grande Gigante Gentile non delude le aspettative, ma conquista fin da subito vista e cuore.

Come Sophie (Ruby Barnhill) osserva tutto con occhi curiosi e attenti, compresa la sua bella casa delle bambole, fantasia di un mondo diverso, e migliore, di quello che lei conosce e vive, così il GGG, guarda all'interno dell'orfanotrofio dove l'intelligente bambina si trova. Si muove furtivo, nell'ombra della notte, in tipiche atmosfere londinesi, ma quando viene visto, può fare un'unica cosa: rapire la ragazzina e portarla nel Paese Dei Giganti. 
Il primo approccio tra i due non è certamente dei migliori, ma non ci vuole molto prima che Sophie capisca non solo che si può fidare dell'omone gentile che parla in modo tanto strano quanto adorabile, ma anche che ha finalmente trovato un amico, un'anima affine con cui condividere le emozioni e, nonostante tutto, parlare la stessa lingua.

La trama è molto semplice, talvolta anche molto lenta nel suo svolgersi, ma tocca punti di profonda sensibilità e di fine humour, la cui punta più alta e divertente è costituita da un irresistibile pranzo con la regina (Penelope Wilton).

La magia del film si può racchiudere in alcune immagini che rimangono impresse nella mente - e di nuovo nel cuore - degli spettatori: il viso dolce e buono del GGG (Spielberg ha scelto Mark Rylance il primo giorno di riprese de Il Ponte delle Spie e l'attore si è ovviamente dimostrato un'eccezionale interprete anche con la performance capture), il suo laboratorio e, soprattutto, il Paese dei Sogni, ma gli spettatori si ricorderanno anche il GGG e il suo buffo mimetizzarsi nella Londra notturna, la corsa a grandi falcate verso il suo paese e gli scontri con i suoi simili.

Nelle storie di Dahl c'è molto humour ma anche un lato oscuro, ed è così che la pellicola affronta il problema del solo e dell'emarginato, temi che, a ben pensarci, non possono non ricordare Hook: la bambina vive in un posto in cui si sente continuamente sola, il gigante in un paese dove i suoi simili sono molto più grossi e cattivi di lui e lo "bullizzano". Dal canto suo il GGG, impassibile, continua a sorridere alla vita e a fare il proprio lavoro: catturare i sogni. E la stessa cosa fa Spielberg: intercetta i desideri dei bambini (e dei grandi), li unisce al romanzo di Dahl (facendosi aiutare dalla sceneggiatrice Melissa Mathison) e li soffia sulla platea, donando sicuramente un caldo sorriso.

In sala dal 30 dicembre 2016.