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venerdì 27 novembre 2015

“Il Viaggio di Arlo”: un avventuroso percorso di formazione

di Silvia Sottile

Che cosa sarebbe successo se l’asteroide che ha cambiato per sempre la vita sulla Terra non avesse colpito il nostro pianeta e i dinosauri non si fossero mai estinti? Da questa simpatica idea di partenza ha inizio Il Viaggio di Arlo, diretto da Peter Sohn, seconda pellicola Disney-Pixar dell’anno dopo il sofisticato  Inside Out, capolavoro di Pete Docter.

Questa volta, ferma restando l’impeccabilità tecnica dei prodotti targati Pixar, ci troviamo di fronte ad una storia destinata soprattutto ai bambini: un classico percorso di formazione attraverso un viaggio avventuroso per ritornare a casa. Arlo è un giovane apatosauro che aiuta la famiglia a mandare avanti la fattoria, ma è molto pauroso, nonostante i ripetuti incoraggiamenti da parte del padre. Un giorno, a causa di una tempesta e un rocambolesco inseguimento, si ritrova ferito e lontano da casa. Dovrà riuscire a superare le sue paure e affrontare un viaggio ricco di avventure e incontri per tornare a casa, tirando fuori tutto il suo coraggio che lo porterà a diventare adulto. Lungo il percorso sarà aiutato da Spot, piccolo cucciolo d’uomo primitivo, con il quale nascerà una vera amicizia. Davvero irresistibile e di immediato effetto l’idea di immaginare il dinosauro Arlo come un ragazzo e Spot, l’umano, esattamente come fosse un cagnolino, affettuoso, coraggioso e selvaggio, in un rovesciamento dei classici ruoli uomo-animale. I due sono adorabili. Ci saranno momenti divertenti, altri di difficoltà e naturalmente non mancheranno quelli commoventi, a sottolineare l’importanza e il valore degli affetti, che siano legami familiari o di profonda amicizia.

Le storie Disney Pixar hanno il potere di emozionare e coinvolgere anche se la trama di base non è del tutto nuova. Sono infatti evidenti i richiami ad alcuni classici come Alla ricerca di Nemo o Il Re Leone, che fanno sentire quasi “a casa” il pubblico di ogni fascia d’età, pur garantendo un’originalità narrativa e una sceneggiatura lineare, semplice ma sempre di impatto, senza sbavature. È incredibile la capacità di raccontare storie simili ma farle sembrare nuove ed entusiasmanti. Simpatici e buffi i personaggi incontrati lungo il percorso, tutti graficamente resi alla perfezione da un design sempre d’alto livello. Meritano una menzione particolare i feroci T-Rex, immaginati (in questo mondo alternativo) come dei cowboy, dei mandriani. E la fase del racconto che li vede interagire con Arlo è narrata (sia visivamente che a livello di musiche) come un vero e proprio western preistorico. La natura, meravigliosa ma anche selvaggia, assume un ruolo fondamentale ai fini del racconto, quasi un personaggio vero e proprio, un antagonista, che rende difficile e impervio il ritorno a casa del nostro piccolo eroe, eppure è anche una natura bellissima, che regala scene da togliere il respiro, come quella notturna, di forte impatto emotivo, con stelle e lucciole. I paesaggi naturali mozzafiato, le maestose distese a perdita d’occhio di roccia e vegetazione, i fiumi, sono resi con un realismo a dir poco incredibile, a conferma (se mai ce ne fosse bisogno) dell’eccellente qualità dell’animazione Pixar. Le nuvole, le gocce d’acqua, le foglie, le vette innevate, tutto sembra davvero reale. I personaggi, invece, anch’essi curati nei minimi dettagli, hanno forme morbide, arrotondate, variopinte e sgargianti, in un delizioso tripudio di colori che cattura l’attenzione dei più piccoli.

Era molto difficile colpire nel segno dopo il successo di Inside Out eppure Il Viaggio di Arlo ci riesce, proprio per la sua storia semplice ma toccante, narrata con ritmo e supportata da immagini, fotografia e musiche (del premio Oscar  Mychael Danna) assolutamente all’altezza delle aspettative.

Il Viaggio di Arlo, nelle nostre sale dal 25 novembre, è un divertente ed emozionante film per famiglie. Pronti per un’altra epica e straordinaria avventura targata Pixar?

“Il sapore del successo”: una seconda occasione, ai fornelli e nella vita

di Silvia Sottile

Adam Jones (Bradley Cooper) era uno chef all’apice del successo, ma la sua vita sregolata, l’alcool e la droga gli avevano fatto perdere tutto, incluso il suo rinomato ristorante a Parigi. Deciso a rimettersi in gioco, deve necessariamente abbandonare le cattive abitudini. Ha intenzione di aprire un ristorante a Londra con  l’obiettivo di conquistare la tanto agognata terza stella Michelin e per riuscirci si circonda della miglior squadra possibile, rigorosamente internazionale: Helene (Sienna Miller), Max (Riccardo Scamarcio), Michel (Omar Sy) e David (Sam Keeley). Nel cast, ricco di nomi e volti noti, troviamo anche Daniel Brühl (Tony), Emma Thompson (Dr. Rosshilde), Uma Thurman (Simone), Matthew Rhys (Reece), Alicia Vikander (Anne Marie), Lily James (Sara) e Sarah Greene (Kaitlin).
Il sapore del successo, diretto da John Wells, vanta una sceneggiatura di Steven Knight, e questo è senza dubbio uno dei punti di forza della pellicola, perché se la storia può sembrare a prima vista fin troppo lineare, si rivela in realtà scritta benissimo, dinamica, brillante e ironica, con un giusto mix dei classici elementi tipici del genere quali la passione per il cibo, l’amore, la voglia di riscatto, l’importanza delle seconde occasioni e del gioco di squadra.

La rockstar dei fornelli, sulla scia dei prodotti televisivi contemporanei tipo Masterchef, è indubbiamente Adam Jones, arrogante, ribelle e affascinate, interpretato in maniera convincente da Bradley Cooper col suo volto sornione e irriverente al punto giusto. Bisogna comunque ammettere che la dolcezza e l’impegno di Sienna Miller nel ruolo del suo vice (Helene) erano assolutamente necessari per bilanciare gli equilibri. Del resto i due attori hanno un ottimo feeling, avendo già lavorato insieme in American Sniper di Clint Eastwood.

Cooper e la Miller (presenti in conferenza stampa a Roma insieme al nostro Riccardo Scamarcio) ci hanno raccontato che tutte le varie pietanze che si vedono preparate nelle cucine del ristorante erano realmente realizzate da loro sul set, con l’aiuto naturalmente di cuochi professionisti.  Questa attenzione ai dettagli, al cibo, alla cucina, emerge durante la visione del film, i piatti conquistano con le loro immagini visive e si esce dalla sala con l’acquolina in bocca.

Ma non c’è solo cibo, anche se è l’elemento cardine, c’è la maturazione di un uomo grazie al coraggio di lottare per una seconda occasione, all’amore e al lasciarsi aiutare dalle persone che lo circondano e che hanno fiducia in lui. Il tutto narrato con toni molto ironici, specie nella prima parte, che scorre fluida e divertente, tra simpatiche ed efficaci battute, belle musiche e squarci di Londra che risultano sempre graditi.

Il sapore del successo, al cinema dal 26 novembre, è una commedia gradevole e brillante, adatta ad una serata di relax, impreziosita dall’elemento “cibo” e dal fascino dei protagonisti. 

lunedì 23 novembre 2015

“Hunger Games : Il canto della rivolta – Parte 2”: la conclusione della saga young-adult

di Silvia Sottile

Hunger Games: Il canto della rivolta – Parte 2, diretto da Francis Lawrence,  inizia esattamente là dove era finita la prima parte, riprendendo il terzo ed ultimo libro della saga scritta da Suzanne Collins (a cui i film si sono mantenuti sempre abbastanza fedeli) ambientata in un futuro distopico post-apocalittico.

Katniss Everdeen (Jennifer Lawrence), la ragazza del distretto 12 che si era offerta come Tributo per i giochi mortali (gli Hunger Games, appunto) di Capitol City per salvare la sorella Prim (Willow Shields) e poi era stata trasformata in uno strumento di propaganda del potere politico detenuto dal presidente Snow (Donald Sutherland) si trova al distretto 13, roccaforte sotterranea e militare dei ribelli. Ma anche la presidente Coin (Julianne Moore), a capo della rivoluzione di Panem, non esita ad usare l’immagine della ragazza, manipolando i media per ottenere ciò che vuole, trasformandola nella Ghiandaia Imitatrice, simbolo della rivolta. Katniss, sempre riluttante e insofferente a questi condizionamenti esterni, prende finalmente consapevolezza di sé e decide di portare avanti i suoi piani accompagnata dai suoi amici più fidati: insieme a Gale (Liam Hemsworth), ormai sempre più in versione soldato, Peeta (Josh Hutcherson), psicologicamente distrutto dal “lavaggio del cervello” operatogli da Snow, con continuo bisogno di aiuto e conferme, Finnick (Sam Claflin), alla troupe televisiva armata e a pochi altri componenti dell’esercito ribelle (la squadra 451) vuole raggiungere Snow ed ucciderlo in una resa dei conti finale, per ciò che ha fatto a lei e ai suoi cari e per costruire un futuro migliore per la nazione. Ci troviamo dunque di fronte ad un vero e proprio film di guerra. I giochi, sebbene letali, sono un lontano ricordo, qui si combatte davvero per la sopravvivenza.

L’azione e l’adrenalina sono garantiti dalle scene mozzafiato all’interno di Capitol City, in cui i nostri eroi, per raggiungere il loro obiettivo, devono sfuggire ai “baccelli” ovvero delle trappole mortali che rendono la città una sorta di arena degli Hunger Games. Tra inseguimenti, fughe e combattimenti corpo a corpo nei sotterranei contro gli “ibridi” (una specie di mutanti), il pathos è assicurato, grazie anche alle immagini dinamiche e agli ottimi effetti speciali. Non mancano (anzi abbondano) i momenti riflessivi, di dubbio, introspezione e dialogo, così come i necessari colpi di scena finali atti a rendere epico il racconto.  

Nel cast d’alto livello, oltre agli attori già citati, troviamo Woody Harrelson (nel ruolo di Haymitch), Elizabeth Banks (Effie), Stanley Tucci (Caesar), Jena Malone (Johanna), Natalie Dormer (Cressida) e il compianto Philip Seymour Hoffman (Plutarch Heavensbee).
Ma la protagonista assoluta è lei, Jennifer Lawrence, che rende credibile Katniss, con la sua innata bravura ed espressività. L’attrice, premio Oscar per Il lato Positivo, è senza dubbio tra le giovani più talentuose del panorama Hollywoodiano. Il suo personaggio rappresenta un’eroina femminista che sacrifica la gloria per inseguire i suoi ideali (rischiando la vita) e si ribella a questa società dell’immagine vittima della manipolazione mediatica di Orwelliana memoria. È evidente il forte messaggio di critica alla propaganda politica contemporanea, messaggio importante per la presa di coscienza dei giovani. Ed è grazie a questo modo di rivolgersi ai giovani che Hunger Games diventa qualcosa di più di una saga post adolescenziale, i cui temi profondi coinvolgono anche il pubblico di ogni generazione.

Ciò che continua purtroppo a non convincere è la decisione, indubbiamente di carattere commerciale, di dividere in due Il canto della rivolta, difatti il film ne risente, seppur in maniera minore rispetto alla prima parte. In particolare il ritmo risulta lento, dando l’impressione di essere allungato e alcuni dialoghi ripetitivi, non necessari. Altra piccola pecca: la fine ci ricorda un po’ troppo Il Signore degli Anelli – Il Ritorno del Re, con più finali consecutivi.
Ma in definitiva, considerata nel suo insieme, la saga risulta perfettamente riuscita e d’alto livello sia tecnico che contenutistico, con una conclusione degna delle epiche vicende narrate. Quest’ultimo capitolo non deluderà le aspettative dei fan.

Hunger Games: Il canto della rivolta – Parte 2 è nelle nostre sale dal 19 novembre.


giovedì 19 novembre 2015

“Mr. Holmes – Il mistero del caso irrisolto”: un anziano Sherlock Holmes alle prese con i ricordi

di Silvia Sottile

Dimenticate Robert Downey Jr. (Sherlock Holmes nella versione cinematografica targata Guy Ritchie) e Benedict Cumberbatch (protagonista della serie televisiva Sherlock). In Mr. Holmes – Il mistero del caso irrisolto, adattamento cinematografico del romanzo A Slight Trick if The Mind di Mitch Cullin, troviamo il famoso investigatore britannico nell’ultima fase della sua vita.

Siamo nel 1947, Sherlock Holmes (Ian McKellen) ha 93 anni, si è da tempo ritirato a vita privata in un confortevole cottage nella campagna del Sussex dove alleva api. A fargli compagnia solo la fidata governante, Mrs. Munro (Laura Linney) e suo figlio, il piccolo Roger (Milo Parker) di 11 anni. A turbare la quiete dell’anziano Holmes sono i ricordi, o meglio i problemi che inizia ad avere con la memoria, dimenticando fatti anche importanti. E allora prova a ricostruire pian piano tutti i dettagli di un caso particolarmente delicato che circa 30 anni prima non era riuscito a risolvere, riguardante una donna, Ann Kelmot (Hattie Morahan). Vuole soprattutto ricordarne il motivo, cosa successe esattamente, principalmente perché proprio a causa di quel fallimento smise con le indagini. Non c’è più il fidato Watson ad aiutarlo e lui non è mai stato bravo nei rapporti umani, eppure stringe una inaspettata e affettuosa amicizia col piccolo Roger, insegnandogli a curare le api. Il bambino lo aiuta sia a scoprire il motivo per cui questi insetti si stanno decimando, sia a far ripartire gli ingranaggi, sempre brillanti, del suo cervello.

Il regista Bill Condon ha fatto la scelta migliore in assoluto affidando la parte del protagonista allo straordinario Sir Ian McKellen, con cui aveva già lavorato in Demoni e Dei (1998) che gli era valso l’Oscar per la miglior sceneggiatura non originale. Il grande attore britannico, sempre in scena per tutta la durata del film, incanta con la sua bravura donando a Sherlock Holmes il giusto mix di delicatezza, caratteraccio e malinconia. È un piacere vederlo e sentirlo recitare, specie in lingua originale, nonostante quel pizzico di tristezza nel trovare un  personaggio così amato nei suoi ultimi anni di vita a dover fare i conti con l’idea della morte, segno che il coinvolgimento emotivo è al massimo. Importante anche l’amicizia che si viene a creare col piccolo Roger, grazie alla strepitosa freschezza e all’abilità recitativa del giovanissimo Milo Parker, attualmente al cinema con un ruolo da protagonista in Ghosthunters – L’acchiappafantasmi. Completano l’eccellente cast la dolce ed espressiva Laura Linney, Hiroyuki Sanada (uno dei più talentuosi attori giapponesi) e l’attrice teatrale Hattie Morahan, tutti perfettamente credibili e intensi nelle loro interpretazioni.

La pellicola, forse a tratti un po’ lenta, è però deliziosamente inglese. I meravigliosi paesaggi del Sussex, la verde campagna, il cottage, il mare e le bianche scogliere riempiono gli occhi e il cuore accompagnando le emozioni trasmesse dalla storia. C’è sempre molta luce nelle immagini e nel racconto, e bellissime sono le musiche, armoniose, a voler richiamare i suoni provenienti dall’armonica a vetro di Ann Kelmot, la donna del mistero. Ironici, in perfetto stile inglese, i riferimenti ai romanzi e ai vecchi film di Sherlock Holmes, così come i dettagli del cappello e della pipa, che il nostro investigatore giura furono inventati da Watson per romanzare un po’ i racconti. Il doppio registro temporale (presente nel 1947 e passato nel 1919) è ben dosato ed entrambi i periodi storici sono curati nei minimi  dettagli.

Mr. Holmes – Il mistero del caso irrisolto, al cinema dal 19 novembre, coinvolge, emoziona, fa sorridere e commuovere. Da non perdere, soprattutto per godere del talento di Sir Ian McKellen.

mercoledì 18 novembre 2015

“Né Giulietta, né Romeo”: adolescenza e omosessualità

di Silvia Sottile

Per il suo debutto da regista, con Né Giulietta, né Romeo l’attrice Veronica Pivetti sceglie un copione che da un certo punto di vista somiglia fin troppo a Provaci ancora Prof!, la fortunata fiction televisiva che l’ha vista protagonista per ben sei stagioni e che sul piccolo schermo può anche funzionare ma al cinema non convince pienamente.

Rocco (Andrea Amato) ha 16 anni, età molto delicata, ricca di passioni, sogni, voglia di ribellione e sentimenti in subbuglio. Ha genitori separati ma aperti, presenti e all’apparenza progressisti: Olga (Veronica Pivetti) è giornalista mentre Manuele (Corrado Invernizzi) è uno psicanalista di fama nonché impenitente dongiovanni. Quando però Rocco si rende conto di provare sentimenti per un compagno di scuola e rivela alla famiglia la propria omosessualità, arriva l’inevitabile scontro farcito da incomprensioni e pregiudizi omofobi ad evidenziare i limiti del perbenismo di facciata. Rocco decide allora di fuggire con i suoi migliori amici, Maria (Carolina Pavone) e Mauri (Francesco De Miranda), direzione Milano, per partecipare al concerto della rockstar del momento, giovanissima icona gay, di cui è un fan sfegatato. Mentre Manuele è preso dalle sue relazioni sentimentali, Olga parte all’inseguimento del figlio, accompagnata dalla madre, l’anziana, fascista e originale nonna Amanda (Pia Engleberth). I siparietti tra le due sono la parte più divertente della pellicola, che alla fine si risolverà con una prevedibile e scontata maturazione di tutti i protagonisti.

Se la scelta della tematica può rivelarsi interessante, ovvero la probabile e difficile reazione di un genitore comune all’omosessualità del figlio e alle plausibili difficoltà che questa realtà comporta purtroppo ancora oggi, la resa non è altrettanto convincente.

Forse raccontare in chiave di commedia un tema così delicato (da meritare il patrocinio di Amnesty International), non è poi così semplice come sembra e si rischia (cosa che puntualmente accade) di cadere nei luoghi comuni più ovvi. Né Giulietta, né Romeo appare infatti troppo farcito di stereotipi , situazioni decisamente poco credibili, a tratti surreali, che lo rendono più in linea con una serie tv. Anche la sceneggiatura non risulta omogenea, la trama non segue una sua logica e i personaggi avrebbero necessitato di una maggiore sfaccettatura. Quello che manca, soprattutto, è un po’ di spessore: non si va mai in profondità, cosa che in questo contesto sarebbe stata necessaria.  Non tutto è da buttar via: alcuni dialoghi infatti sono brillanti ed emerge la bravura della grande Pia Engleberth, l’unica a farci ridere con la sua simpatica nonna Amanda. 

Né Giulietta, né Romeo, nelle nostre sale dal 19 novembre, è un film che non indaga a fondo nella tematica che promette di affrontare, i potenziali elementi di interesse rimangono spunti appena accennati,  ed emergono tutti i limiti della Pivetti al suo primo tentativo come regista.

giovedì 12 novembre 2015

“Premonitions”: paranormale ed eutanasia nel thriller di Poyart

di Silvia Sottile

“Come fermare un killer che prevede il futuro?”.
È questa la domanda che il poster di Premonitions pone allo spettatore, catapultandolo immediatamente in un contesto da thriller sovrannaturale. Ma il film del brasiliano Afonso Poyart va decisamente oltre. Lo stesso titolo italiano è in parte fuorviante, andrebbe infatti posto l’accento anche su quello originale, Solace, ovvero conforto, sollievo.

L’Agente Speciale dell’FBI Joe Merriwether (Jeffrey Dean Morgan) si ritrova ad avere a che fare con una serie di inquietanti omicidi che non riesce a risolvere, decide allora di chiedere aiuto a John Clancy (Anthony Hopkins), un medico psicanalista, suo ex collaboratore, dotato di capacità sensitive. Il dottor Clancy, che vive isolato dal mondo dopo la morte per leucemia della giovanissima figlia, inizialmente non vuole avere niente a che fare col caso né usare le sue doti, ma cambia idea quando ha delle premonizioni molto violente su Katherine Cowles (Abbie Cornish), la giovane collega di Joe, che tanto gli ricorda la figlia. Le sue straordinarie intuizioni lo porteranno sulle tracce di Charles Ambrose (Colin Farrell), ma si renderà presto conto che i suoi poteri sono nulla rispetto a quelli eccezionali di questo assassino in missione.

Per quanto riguarda l’intreccio troviamo una classica struttura da thriller, che non porta nulla di nuovo nel panorama cinematografico, a parte forse l’innesto del paranormale. Lo svolgersi della trama è parecchio prevedibile e scontato, condito da numerosi cliché tipici del genere. Anche le presunte svolte narrative non incidono, non creano suspense, perché lo spettatore riesce già ad anticiparle. E dire che inizialmente si era pensato di rendere questo film un sequel di Seven, il capolavoro di David Fincher. L’elemento inaspettato di Premonitions,  quasi filosofico, che però a tratti stride nel contesto in cui è inserito, è un tentativo di riflessione sull’eutanasia. Il serial killer infatti crede di essere un angelo della morte che uccide i malati terminali evitandogli anni di sofferenze (non si tratta di uno spoiler dato che si scopre, anzi viene chiaramente spiegato nella prima parte della pellicola, benché sia facilmente intuibile sin da subito). Sembra però che questo importante e delicato tema sia messo lì senza fornire una risposta univoca né elementi adatti a riflettere o emozionare. Anche dal punto di vista tecnico emergono numerose pecche: montaggio, fotografia, inquadrature e soprattutto la regia non aiutano a creare empatia, generando piuttosto confusione, tra immagini visivamente forti, a volte fuori luogo e scollate tra loro, soprattutto nelle “visioni”, rese in maniera troppo televisiva quasi come fossero degli spot pubblicitari.

A salvare Premonitions (almeno in parte) sono le interpretazioni degli attori, il cast infatti è di primo 
livello. Indubbiamente Sir Anthony Hopkins (premio Oscar per Il silenzio degli innocenti) è ormai condannato a ruoli di questo genere, nei quali però si trova sempre a suo agio, tanto da reggere gran parte del film sulle sue spalle. Peccato che il tanto atteso incontro – scontro tra il suo dottor Clancy e il serial killer Ambrose (un altrettanto bravo Colin Farrell) avvenga solo nella parte finale della pellicola, perdendo così una grande occasione: un maggior numero di scene insieme magari non sarebbe servito a rendere questo film indimenticabile ma sicuramente l’avrebbe reso più appetibile e incisivo. Sia Morgan che la Cornish svolgono bene il loro compito risultando abbastanza credibili.

Premonitions, con tutti i suoi difetti, resta comunque un thriller accettabile , senza grandi pretese, che potrebbe risultare interessante per gli appassionati del genere. Di sicuro ci si aspettava molto di più. Dal 12 novembre al cinema.

“Gli ultimi saranno ultimi”: commedia amara sulla vita

di Silvia Sottile

Il regista e sceneggiatore Massimiliano Bruno porta sul grande schermo lo spettacolo teatrale Gli ultimi saranno ultimi, da lui stesso scritto ed interpretato sul  palcoscenico (tra il 2005 e il 2007) dalla straordinaria ed eclettica Paola Cortellesi, in un sempre più frequente connubio tra teatro e cinema. Bruno vira dalla sua abituale propensione alla commedia per esplorare il più complesso territorio del dramma, prendendo fortemente spunto dalla realtà e narrandola in maniera immediata e senza veli.

Luciana (Paola Cortellesi) è una donna semplice, che sogna una vita dignitosa insieme al marito Stefano (Alessandro Gassmann). Lei ha un lavoro poco retribuito che però le consente almeno di vivere, lui non vuole andare “sotto padrone” e cerca sempre di concludere “affari” che non vanno mai in porto. Quando finalmente coronano il loro più grande desiderio, ovvero l’attesa di un bambino, Luciana si ritrova improvvisamente senza lavoro (licenziata, o meglio: non le viene rinnovato il contratto proprio perché incinta). Nel momento in cui anche gli affetti intorno a lei si allontanano, Luciana, al nono mese di gravidanza, decide di reagire, per riaffermare la sua dignità, chiedendo con coraggio ciò che le spetta, fino a compiere un gesto estremo e sconsiderato, come puntare la pistola contro un poliziotto, Antonio Zanzotto (Fabrizio Bentivoglio). Sceglie però la persona sbagliata per reclamare giustizia, anche lui è un ultimo tra gli ultimi.

Il film si apre proprio con alcune immagini di questa scena finale, per poi narrare (attraverso un lungo flashback) tutti gli eventi che hanno portato a quel punto della storia. Così il pathos avvolge lo spettatore fin dal primo momento, mentre si entra pian piano nelle vite di Luciana, Stefano e Antonio e del paese della provincia laziale (funestato dalle radiazioni delle antenne di Radio Vaticana che trasmettono la messa persino dalle tubature dei lavandini e dai water) in cui vivono, con tutti i personaggi di contorno.

Un po’ si ride, ma soprattutto si riflette, in questa commedia amara sulla vita. Sembra quasi di sentire un pugno nello stomaco assistendo passo dopo passo alle sofferenze di Luciana, interpretata da una stratosferica Paola Cortellesi, grandissima attrice e artista a tutto tondo (ha collaborato anche alla sceneggiatura) che dà al suo personaggio quella forza dolorosa della disperazione e quell’intensità necessarie a reggere (ed in grande) l’intero percorso emotivo del film. Se lei è il fulcro, protagonista assoluta, va giustamente riconosciuto che è affiancata da attori altrettanto bravi, come Alessandro Gassmann, professionalmente sempre più maturo, perfetto nel ruolo dello scansafatiche irresponsabile ma pronto alla battuta, e un Fabrizio Bentivoglio che mette nel suo poliziotto tutta la malinconia necessaria  a farci immedesimare in lui. Nel cast anche Stefano Fresi e Ilaria Spada, perfettamente in parte.

Il tentativo di portare avanti una commedia drammatica, toccando temi forti (come l’inquinamento ambientale e ancor di più la situazione della donna che perde il lavoro in seguito ad una gravidanza) che rispecchiano purtroppo la nostra realtà, è abbastanza riuscito. Di questo va dato merito a Bruno,  che però ha ancora margine di miglioramento: alcuni nodi della sceneggiatura risultano poco fluidi, la scelta di partire dalla fine non convince a pieno e le musiche, indubbiamente belle e toccanti, sembrano a tratti eccessive per come poi si evolve la vicenda, che vuole fortunatamente lasciare un barlume di speranza.

Gli ultimi saranno ultimi, nelle nostre sale dal 12 novembre, tocca profondamente l’animo umano, grazie ad interpretazioni intense e drammatiche, senza dimenticare i momenti divertenti che ogni tanto alleggeriscono l’atmosfera con toni da commedia all’italiana. Il tema trattato (che poi è la vita) e il modo in cui è narrata la storia, commuovono ed emozionano.  Da vedere.

martedì 10 novembre 2015

"Matrimonio al sud": ennesimo cinepanettone con Massimo Boldi

di Silvia Sottile

Nutrivamo basse aspettative per questo film di Paolo Costella, aspettative che puntualmente sono state confermate. Matrimonio al Sud è il nuovo cinepanettone matrimoniale con protagonista Massimo Boldi. La trama, nelle intenzioni, è solo un pretesto per dare il via a facili risate. Ma non è detto che ciò accada.

Lorenzo Colombo (Boldi) è un industrialotto lombardo che vive a Milano e ama solo il Nord. Suo figlio Teo (Luca Peracino) sta per dargli una grandissima e dolorosa delusione: sta per sposare Sofia (Fatima Trotta), una ragazza del Sud, figlia di Pasquale Caprioli (Biagio Izzo), pizzaiolo meridionale. Se le rispettive mogli, Giulia (Debora Villa) e Anna (Barbara Tabita), accettano serenamente la scelta dei figli, per i mariti è uno shock, da cui si innescano le prevedibili gag basate sul contrasto Nord-Sud. Nel cast anche Paolo Conticini (nel ruolo di Gegè, presentatore piacione del programma televisivo che segue le nozze), Gabriele Cirilli, Enzo Salvi, Ugo Conti, Loredana De Nardis, Peppe Barra e Carolina Marconi, che danno vita ad uno strampalato gruppo di personaggi  a dir poco caricaturali.

Matrimonio al Sud parte da una premessa debole, si svolge in modo banale, e si conclude in maniera surreale. Le solite gag stantie sul “polentone” e il “terrone” che non si sopportano sono state per anni e sono ancora il cavallo di battaglia di Boldi, ma questa comicità basata sullo scontro nord-sud ha ormai fatto il suo tempo e sa di visto e rivisto innumerevoli volte, tanto da riuscire a stento a strappare solo qualche lieve risata all’inizio della pellicola. Poi il film si trascina via tra battute trite e ritrite, per nulla originali né divertenti, situazioni poco credibili e sceneggiatura stiracchiata, tirata fin troppo per le lunghe. Sembra di rivedere uno qualsiasi degli altri film con Boldi, praticamente identici. E viene spontaneo dire: basta!

Non va meglio sul piano attoriale: i personaggi  sono stereotipati, monodimensionali, nella migliore delle ipotesi ne esce una simpatica macchietta ma assolutamente nulla di più. Boldi sempre uguale a se stesso, Izzo e Conticini ormai abbonati ai cinepanettoni. Si salvano in parte le interpretazioni di Debora Villa e Barbara Tabita, un po’ meglio della media, le migliori (se così si può dire) dell’intero cast. Delusione anche per quanto riguarda i giovani attori, a differenza della piacevole sorpresa rappresentata dai protagonisti di Belli di papà di Guido Chiesa. 

Da segnalare anche l’eccessiva presenza di sponsor, sembra quasi di assistere ad una televendita continua.

Cosa salvare? Forse solo i paesaggi e le poche immagini del meraviglioso mare della Puglia (anche se nel film dovrebbe essere la Campania) e le bianche case a picco sulla scogliera. La location scelta, Polignano a Mare trasformata in un inventato San Valentino a Mare, è però esattamente la stessa appena vista in Io che amo solo te di Marco Ponti, con una resa totalmente diversa...

Matrimonio al Sud è un film di cui onestamente non sentivamo il bisogno e non comprendiamo il motivo per cui si continui su questa strada. Magari sarà un successo al botteghino, grazie al richiamo di Massimo Boldi e altri caratteristi che garantiscono la facile risata. Per noi rimane un prodotto di basso livello, oltretutto decisamente anacronistico, che rappresenta solo una parte del cinema italiano, non tutto, per fortuna.  

Nelle nostre sale dal 12 novembre.

mercoledì 4 novembre 2015

“007 – Spectre”: un James Bond old style, classico e moderno

di Silvia Sottile

007 – Spectre è il 24° film della saga di James Bond, il quarto con Daniel Craig nei panni  del più famoso agente segreto britannico uscito dalla penna di Ian Fleming. Torna alla regia Sam Mendes, dopo il successo del pluripremiato Skyfall con cui il paragone è d’obbligo (nonché fisiologico), principalmente perché i due film sono strettamente collegati tra loro. Ci sarà sempre chi riterrà ineguagliabile il precedente episodio, visto unanimemente come un capolavoro,  e chi (ad esempio chi scrive) riconoscerà i meriti dell’ultimo arrivato, reputandolo addirittura superiore, ma di sicuro c’è che Spectre ha tutte le carte in regola per essere considerato uno dei migliori Bond movie di sempre.

Un misterioso messaggio dal passato porterà James Bond (Daniel Craig) a inseguire autonomamente una pericolosissima organizzazione che minaccia l’ordine mondiale, la Spectre, al cui comando c’è il folle Franz Oberhauser (Christoph Waltz): da Città del Messico (spettacolare la scena iniziale nel giorno dei Morti) a Roma (dove incontrerà la vedova Lucia Sciarra, interpretata dalla nostra Monica Bellucci), dalle Alpi a Tangeri, fino naturalmente a Londra.  Il tutto col solo supporto dei fidati Q (Ben Whishaw) e Moneypenny (Naomie Harris) e cercando contemporaneamente di proteggere l’unica persona che possa davvero aiutarlo a dipanare questa matassa, Madeleine Swann (Léa Seydoux), figlia di un suo vecchio nemico, Mr. White (Jesper Christensen).  
Intanto al quartier generale dell’MI6, il nuovo M, Gareth Mallory (Ralph Fiennes) combatte una dura battaglia politica contro C, Max Denbigh (Andrew Scott), membro del Governo britannico e capo dei nuovi servizi segreti congiunti, che preme per chiudere la sezione doppio zero e sostituirla con un sistema informatico globalizzato e superinvadente.  

Ciò che è chiaro fin dalle prime immagini è un evidente effetto nostalgia della pellicola, si guarda molto al passato, strizzando l’occhio ai fan dell’intera saga, a partire dalla fotografia e dalla colonna sonora. La canzone dei titoli di testa (Writing’s on the Wall, interpretata da Sam Smith) su immagini (e colori) dal sapore retrò, non farà rimpiangere la Skyfall valsa l’Oscar ad Adele. Ma non si tratta di una nostalgia fine a sé stessa. L’operazione portata avanti da Mendes è ben più complessa: dopo aver scavato nel lato oscuro di Bond a partire dalle sue origini con Skyfall, in Spectre tira le somme e conclude un percorso che comprende tutti e 4 i film con Craig, regalandoci un agente segreto 007 rinnovato e moderno che porta orgogliosamente con sé il suo passato in un perfetto mix di tradizione e innovazione. 
Ed ecco che possiamo godere di tutti quegli aspetti classici, vecchio stile, finalmente ritrovati: l’ironia tipicamente british (anche se bisogna ammettere che forse le battute si colgono meglio in lingua originale), il lavoro di squadra, i repentini cambi di continente, le lotte in treno con lo scagnozzo di turno (Dave Bautista) e persino in elicottero, i gadget inimitabili della sezione Q, le auto pluri-accessoriate, una fiammante Aston Martin nuova di zecca, le donne, il Vodka Martini, fino alla mitica e celebre frase: “My name is Bond, James Bond”.

Daniel Craig non è Sean Connery ma si trova decisamente a suo agio nei panni di Bond, che veste con eleganza e atleticità. Gli va anche riconosciuto il merito di aver dato nuova linfa al personaggio di 007, grazie al suo stile, al suo fisico e ai suoi occhi di ghiaccio. Bene anche tutti i rappresentanti dell’MI6, capitanati dallo straordinario Ralph Fiennes, sempre capace di fare la differenza. Christoph Waltz è un po’ prigioniero del ghigno malefico del suo cattivo, che forse poteva essere più sfaccettato. Quanto alle donne, la Bellucci rappresenta un piccola nota negativa di Spectre, il suo è un personaggio minore, al quale è però affidato un ruolo chiave, ma l’attrice non appare del tutto convincente. Convince invece, e pure tanto, la splendida Léa Seydoux, perfetta e affascinante Bond girl.

Spectre, nelle nostre sale dal 5 novembre, regala due ore e mezza di puro intrattenimento. È un film avvincente e adrenalinico, condito da spettacolari sequenze d’azione, prima fra tutte una scena che resterà nella storia del cinema: un inseguimento mozzafiato per le strade di Roma, in notturna, da Via della Conciliazione (con vista su San Pietro) al Lungotevere. Già solo questo, vale il prezzo del biglietto.


domenica 1 novembre 2015

“La legge del mercato”: un intenso Vincent Lindon in cerca di lavoro

di Silvia Sottile

Uno straordinario Vincent Lindon è il protagonista assoluto del film La legge del mercato di Stéphane Brizé. La sua intensa interpretazione di Thierry Taugourdeau è valsa all’artista francese il meritato premio come miglior attore all’ultimo Festival del Cinema di Cannes.

Thierry è un uomo di 51 anni, ha lavorato tutta la vita per una società che poi ha deciso di delocalizzare (in cerca di maggiori guadagni) licenziando tutti. Alla sua età è difficile trovare un nuovo lavoro, da 20 mesi vive col sussidio di disoccupazione tra corsi di formazione che non portano a nulla, uffici di collocamento, colloqui via skype e consulenti finanziari che gli suggeriscono di vendere la casa e farsi un’assicurazione sulla vita. Assistiamo alla frustrazione di Thierry che cerca di non disperarsi di fronte a queste umiliazioni e di non perdere la sua umanità, la sua rettitudine morale, la sua dignità. Finalmente Thierry trova un lavoro che gli consente di mantenere la sua famiglia (ha infatti una moglie e un figlio disabile): agente di sicurezza in un grande magazzino. Solo che i proprietari vogliono che denunci non soltanto i furti dei clienti ma anche i piccoli sbagli dei colleghi, per poterli licenziare. Thierry si troverà di fronte ad un profondo dilemma morale: cosa è disposto a sacrificare per non perdere il proprio lavoro? Fino a che punto può venire a patti con la sua coscienza pur di tenere il posto?

Vincent Lindon dà anima e corpo, espressività e coraggio a Thierry, un uomo retto, che affronta le gravi problematiche del mercato del lavoro, soprattutto quelle di un cinquantenne che ha enormi difficoltà a trovare un lavoro dopo averlo perso, pur essendo umile e disposto ad accettare qualunque opportunità. La legge del mercato è indubbiamente un film profondo e drammatico, che fa davvero riflettere sulla difficile situazione lavorativa attuale, non solo in Francia, dove è ambientato, ma anche in molti altri paesi, tra cui il nostro.

Interessante il modo in cui il regista ha scelto di realizzare questo film, dandogli un aspetto quasi documentaristico, per renderlo reale e coinvolgente al massimo. Gli attori che affiancano Lindon sono quasi tutti non professionisti e nella maggior parte dei casi svolgono realmente lo stesso lavoro del personaggio che interpretano (la cassiera, la guardia giurata, l’impiegato dell’agenzia di collocamento, ecc.).

Anche dal punto di vista tecnico (e lo dimostra la scelta di un direttore della fotografia alla prima esperienza nel cinema ma proveniente dal mondo dei documentari) assistiamo ad un interessante esperimento cinematografico: ripresa a mano, camera in spalla, numerosi e intensi primi piani del protagonista, sempre al centro della scena per cogliere le sue espressioni e le sue reazioni a ciò che vede, a ciò che ascolta, a ciò che accade, tentando sempre di riuscire a non perdere la sua dignità di essere umano.

Lo stesso Vincent Lindon, in sede di conferenza stampa, ha sottolineato l’importanza di rappresentare un tema come questo sul grande schermo perché sono molti gli uomini come Thierry, ma spesso chi ci governa non ha una vera percezione di ciò che accade nella realtà.


La legge del mercato, grazie alla splendida e intensa interpretazione del protagonista, è un film che tocca profondamente tutti noi, facendoci riflettere sul mondo del lavoro ma anche sulla nostra coscienza. È nelle sale italiane dal 29 ottobre, distribuito da Academy 2, che nel 2015 ha già portato sui nostri schermi altri piccoli gioielli del cinema europeo come Minuscule, Leviathan e The Salvation.

“Belli di papà”: divertente commedia sul rapporto padre–figli

di Silvia Sottile

Il regista Guido Chiesa adatta per il grande schermo la commedia messicana campione di incassi Nosotros los nobles, naturalmente italianizzando al massimo contesto, temi e personaggi. Il ruolo di protagonista principale di Belli di papà è stato pensato, fin dalla fase di scrittura, per Diego Abatantuono, che lo ha interpretato con simpatia e professionalità, contribuendo anche ad aggiungere qualcosa di suo alla sceneggiatura e con l’improvvisazione direttamente sul set.

Vincenzo (Abatantuono) è un imprenditore milanese (con origini pugliesi) di successo. Purtroppo è vedovo e i suoi tre figli (tra i 20 e i 25 anni) lo preoccupano non poco: sono cresciuti viziati, immaturi e privi di senso di responsabilità. Non fanno nulla nella vita, a parte spendere cifre spropositate per cose assurde. Deciso a dargli una lezione, finge, con l’aiuto del socio Giovanni (Antonio Catania), che la sua azienda sia fallita per bancarotta fraudolenta, costringendo i figli a nascondersi con lui nella vecchia casa di famiglia in Puglia (a Taranto) e qui, senza soldi né carte di credito, i ragazzi dovranno fare ciò che non hanno mai fatto nella vita: lavorare! Nel corso della pellicola, tra una risata e l’altra, assisteremo anche ad un percorso di crescita, non solo da parte dei tre ragazzi (Chiara – Matilde Gioli, Matteo – Andrea Pisani, Andrea – Francesco Di Raimondo) ma anche del padre, nel rendersi conto che forse qualche responsabilità della situazione è anche sua. Un padre che vuole far maturare i figli ma, ammettendo le sue colpe, cambia e matura anche lui.

Come nella più classica delle tradizioni della commedia italiana, si ride tanto e con gusto (soprattutto nella prima parte) giocando un po’ sulle differenze nord-sud ma soprattutto sfruttando l’immediata comicità dovuta all’impatto dei viziati figli di papà col mondo del lavoro. A poco a poco però emerge anche un lato più emotivo che fa riflettere sulle difficoltà dei giovani di oggi (che non vanno giudicati ma supportati) e anche sulla famiglia e sul rapporto genitori-figli. Purtroppo si evidenzia una certa discontinuità tra la prima parte, molto ritmata e divertente, e la seconda, in cui il ritmo cala, fino alla conclusione un po’ troppo frettolosa, con qualche pecca qua e là nella sceneggiatura. Nell’insieme il giudizio rimane comunque abbastanza positivo, considerata anche la tipologia di prodotto, di carattere più commerciale.

Ottima l’interpretazione di Diego Abatantuono, in splendida forma, che fa da mattatore reggendo gran parte del film col supporto di una spalla ben collaudata come Antonio Catania. Si rivelano discreti e sicuramente in parte anche i tre giovani interpreti dei figli, nonostante la poca esperienza cinematografica. Francesco Facchinetti, per la prima volta sul grande schermo, è stato una piacevole sorpresa, perfetto e convincente al suo esordio nel ruolo di Loris, il viscido fidanzato di Chiara, noto PR della Milano by night, sempre esagerato e sopra le righe, come richiesto dal personaggio. Nel cast anche Barbara Tabita, Marco Zingaro e Nicola Nocella.

La Puglia è una splendida regione, molto bella sia a livello di paesaggi che culturalmente. Visto che inoltre finanzia molto il cinema italiano, la vediamo sempre più spesso (e quasi sempre con merito) nei film nostrani. 
Belle le musiche, che accompagnano in modo funzionale l’evolversi della trama ed è un piacere sentire sui titoli di coda la canzone Buon Viaggio di Cesare Cremonini.


Belli di papà, nelle nostre sale dal 29 ottobre,  si rivela dunque una commedia divertente, leggera, che fa ridere,  adatta a trascorrere piacevolmente un’ora e mezza di svago.