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mercoledì 18 marzo 2015

"La solita commedia - Inferno": la comicità demenziale di Biggio & Mandelli

di Silvia Sottile

Sapevamo cosa aspettarci da La solita Commedia – Inferno,  il film comico del duo Fabrizio Biggio e Francesco Mandelli  (I soliti Idioti) e purtroppo è andata esattamente come previsto. Anche la più piccola speranza di salvare qualcosa si è rivelata vana. Ad essere onesti non sentivamo il bisogno dell’ennesimo prodotto di basso livello che, distribuito da Warner Bros in oltre 400 copie, arriva nelle nostre sale il 19 marzo.
Lo spunto di partenza, nelle intenzioni degli autori, non vuole essere tanto una parodia della Divina Commedia quanto della società contemporanea ma la spinta critica si rivela sterile e banale e si esaurisce praticamente subito nel susseguirsi di scenette una dietro l’altra che spesso girano a vuoto.
L’inferno è nel caos: Minosse non riesce a gestire i nuovi peccatori perché non sa in quale girone mandarli. Chiede aiuto a Lucifero, che a sua volta va da Dio che convoca un consiglio di Santi dal quale emerge una geniale soluzione: mandare Dante (Mandelli) sulla terra per catalogare tutti i nuovi peccati e creare nuovi gironi, del resto sembra la persona adatta allo scopo dato che se ne occupò secoli prima. Dunque Dante si ritrova catapultato in una città del nord Italia (sembrerebbe Milano) al giorno d’oggi, dove Virgilio (Biggio), trentenne impiegato di un supermercato, gli fa controvoglia da guida nel caos quotidiano.
Da qui sembra quasi emergere l’assunto che l’inferno sia la vita di tutti i giorni, la realtà che ci circonda. Ne escono una serie di sketch assurdi, più o meno comici, molto surreali e ben poco divertenti (probabilmente nelle intenzioni avrebbero dovuto far ridere molto di più) in cui gli stessi Biggio e Mandelli, con parrucche,  travestimenti e trucchi posticci, insieme ad un piccolo manipolo di altri attori (Tea Falco, Marco Foschi, Paolo Pierobon, Daniela Virgilio e Gianmarco Tognazzi, nel ruolo, tra gli altri, di Padre Pio), interpretano innumerevoli personaggi. Abbiamo gli hacker, il tiratore di pacchi, il maniaco dell’ordine e della pulizia, gli adoratori di tragedie, i tecno incontinenti (ovvero dipendenti da smartphone che addirittura vanno in un centro di recupero), i consumatori di bruttezza, gli incapaci del wi-fi, ecc., distribuiti in pseudo gironi quali il bar alle 8 del mattino, il traffico all’ora di punta, il supermercato o il condominio. Ci ritroviamo dunque di fronte ad un’accozzaglia di sketch, neanche ben collegati tra loro, che sulla carta dovrebbero essere divertenti ma dai quali emerge una comicità demenziale fine a se stessa, fiacca, sterile e con poco mordente che stanca quasi subito. Che poi, a dirla tutta:  ma si tratta davvero di peccati che meritano l’Inferno?

Tralasciando la descrizione dell’aldilà ai limiti della blasfemia (Dio che fuma e beve e si riempie di psicofarmaci, Gesù moccioso e viziato, Lucifero all’ultima moda e i Santi che litigano tra di loro) e l’uso eccessivo di parolacce senza una reale necessità, fa tanta tristezza anche l’immagine dello stesso Dante, spaesato, che parla in rima. Probabilmente si starà rivoltando nella tomba.
Neanche le note di Vivere di Vasco Rossi sul finale riescono a risollevare la situazione. Una cosa però bisogna riconoscerla: la canzone dei titoli di coda, Vita d’Inferno, presentata quest’anno al Festival di Sanremo, resta in testa anche se controvoglia.

Possiamo augurarci che questo film rimanga un prodotto unico e che, per omaggiare La Divina Commedia, non ne facciano una trilogia. 

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