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mercoledì 9 aprile 2014

"Oculus": oltre lo specchio

di Luca Zanovello

Le premesse antecedenti la realizzazione di Oculus sono di quelle che restituiscono un po’ di romanticismo al cinema, e un pizzico di speranza in più ai film makers indipendenti che cercano fortuna: il regista Mike Flanagan aveva esordito nel 2005 con un omonimo cortometraggio che, nonostante il budget minimo (1500 dollari) si portò a casa vari riconoscimenti e, soprattutto, attribuì grande credibilità al suo autore. Tanto che quando Flanagan lanciò una campagna di crowdfunding per produrre il suo primo lungometraggio (Absentia, 2010), raccolse quasi il doppio della cifra richiesta e, successivamente, venne notato dal vicepresidente della Intrepid Pictures, che volle a tutti i costi incontrare il regista. Da qui, l’idea di sviluppare un film partendo dal cortometraggio Oculus.

Tutto comincia da un passato traumatico: quello della famiglia Russell, o di ciò che ne rimane. Quando la polizia giunge alla loro abitazione, trova il piccolo Tim con una pistola in mano e, a terra, entrambi i genitori morti. Dopo l’arresto e lunghi anni in un istituto psichiatrico per minori, Tim (Brenton Thwaites, La Bella Addormentata) torna libero e viene ospitato dalla sorella Kaylie (Karen Gillan, Dr Who), che aveva condiviso con lui la tragica nottata di molti anni prima e che, al contrario di Tim, è convinta che dietro a quelle morti ci siano degli avvenimenti soprannaturali scatenati da un antico e prezioso specchio custodito dai Russell. Kaylie è determinata a immergersi in un incubo infinito pur di arrivare alla verità e riscattare l’innocenza di Tim. Inutile dirlo, verrà abbondantemente accontentata.

Flanagan, nativo di Salem, tiene fede alle proprie origini orrorifiche e architetta un solido thriller paranormale che attinge da Amityville Horror (1979, Stuart Rosenberg) e progenie ma che sa anche sorprendere con qualche dettaglio spiazzante e originale.
Se il Male e l’oggetto che lo sprigiona non sono niente di nuovo, va riconosciuto ad Oculus un grande effetto claustrofobico, mostrando l’oscurità e ciò che essa contiene senza mai estrarre i due personaggi protagonisti (gli ormai ventenni Tim e Kaylie) dalla tetra abitazione che “ospita” lo specchio. L’ottima cura fotografica e degli effetti visivi, insieme all’impeccabile regia, valorizza i (pochi) momenti insanguinati; attorno, lunghe sequenze interlocutorie che ricostruiscono il mistero ed accrescono la suspense grazie anche a qualche buffa trovata da commedia nera. Il montaggio (dello stesso Flanagan) fa la spola, a volte in maniera un po’ schizofrenica, tra i macabri eventi passati ed il presente in cui i due credibilissimi protagonisti si avvicinano alla resa dei conti col Maligno. È proprio l’ottima gestione dell’inesorabile crescendo di manifestazioni soprannaturali e di segnali sinistri il valore aggiunto di Oculus, che non crolla mai sotto i colpi dei clichés e ogni tanto inquieta davvero. Niente porte che scricchiolano e che si chiudono da sole, insomma, grazie al cielo. Sintetizzando la tradizione classica della ghost story e l’approccio tecnologico del found footage, l’immaginario di Oculus restituisce linfa a un sottogenere sfruttatissimo e, dopo il delirante Insidious di James Wan (ma senza tutte quelle sbandate), regala soddisfazioni a chi - ancora nel 2014 - crede e cede al fascino delle care, vecchie presenze infestanti. Occhio al finale, tra i migliori degli ultimi tempi.

Dal 10 aprile al cinema.



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