di Silvia Sottile
Danny Boyle, regista di film cult quali Trainspotting (1996) e The
Millionaire (2008) che gli è valso l’Oscar per la regia, porta in scena (nel
vero senso della parola) un ritratto piuttosto atipico di Steve Jobs, il
fondatore della Apple. Non si tratta infatti della storia della sua vita ma punta solo su tre momenti particolarmente importanti della sua carriera
professionale, facendoli incrociare con l’aspetto privato.
La sceneggiatura di Steve
Jobs, basata sull’omonima biografia autorizzata scritta da Walter Isaacson e pubblicata nel 2011, è ad opera di un altro premio Oscar,
Aaron Sorkin (The Social Network).
Questo brillante adattamento gli è appena valso un Golden Globe, tanto che
stupisce la sua mancata candidatura agli Oscar.
Il copione del film presenta una struttura teatrale, cosa
che emerge in tutta la sua evidenza nel corso della rappresentazione. Si tratta
di un’opera tripartita (quasi come fosse suddivisa in tre atti) che si svolge
nel backstage pochi minuti prima dei lanci dei tre prodotti più rappresentativi della carriera di Jobs: si parte col Macintosh nel 1984,
si passa poi al NeXT nel 1988 e si finisce con la presentazione dell’iMac nel
1998, tratteggiando un ritratto più intimo che professionale dell’uomo
che ha rivoluzionato la tecnologia digitale. Quello che emerge infatti non è l’esaltazione
del mito di Steve Jobs ma un uomo con immani pregi ed anche enormi difetti,
soprattutto in ambito relazionale.
La sceneggiatura eccellente e la regia impeccabile sono
trascinati dalla straordinaria interpretazione di Michael Fassbender nei panni
di Steve Jobs, a dimostrazione che per trasformarsi nel personaggio ed essere
convincenti non è necessaria una forte somiglianza fisica ma conta
esclusivamente l’incredibile capacità recitativa. Fassbender ha offerto una
prova immensa del suo talento che gli è valsa una meritatissima nomination agli
Oscar. Ne viene fuori il ritratto di un genio, la cui mente instancabile ha
praticamente plasmato il mondo (quasi come un direttore d’orchestra) ma
emergono anche tutte le sue difficoltà nei rapporti umani che ci portano ad
empatizzare con lui.
Va riconosciuto grande merito anche alla bravura di Kate
Winslet che interpreta (con una performance meno evidente, dato il minore
spazio sulla scena, ma altrettanto grandiosa) Joanna Hoffman, ovvero la
direttrice marketing sempre al fianco di Jobs, ruolo che l’ha portata a vincere
il Golden Globe come miglior attrice non protagonista (e nella stessa categoria
è in lizza per l’Oscar). Altre figure ruotano intorno a Jobs e si trovano a
dialogare e a scontrarsi con lui dietro le quinte proprio nei momenti che
precedono i tre importanti lanci: l’ex-fidanzata Chrisann Brennan (Katherine Waterston) insieme alla figlia Lisa,
l’amico e co-fondatore della Apple Steve Wozniak (Seth Rogen) e l’ex CEO
(amministratore delegato) della Apple John Sculley (Jeff Daniels). Tutto il
cast è di alto livello e dà vita a questa sorta di spettacolo teatrale su
grande schermo che nella sua struttura tripartita (ma anche nel percorso
interiore del protagonista) ricorda molto Il
canto di Natale di Charles Dickens con Scrooge che incontra i suoi fantasmi
del passato, presente e futuro: la differenza è che qui Jobs incontra le figure
reali della sua vita, anche se indubbiamente in parte romanzate.
Tanti i
dialoghi, continui i movimenti in scena, davvero un’opera incredibile, sorretta
anche dalla particolare colonna sonora di Daniel Pemberton che ha creato
musiche diverse per ognuno dei tre segmenti, particolarmente adatte ad
evidenziare il momento storico e tecnologico di ogni periodo.
Steve Jobs, al
cinema dal 21 gennaio, è un gioiello cinematografico, frutto dell’abilità di
Boyle, dell’incredibile scrittura di Sorkin, e recitato divinamente da due dei
migliori attori contemporanei, ovvero Fassbender e la Winslet.
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