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lunedì 26 maggio 2014

"Incompresa": diventare grandi con l’arma dell’innocenza

di Carlo Anderlini

Tempus regit separationem. Doloroso e lacerante è, per tutti i protagonisti, affrontare una crisi familiare al tempo d’oggi, ma ancor più doloroso e lacerante era nel lontanissimo 1984, quando le conseguenze di amori che finivano erano vissute come sconfitte dal sapore disgustoso e contagioso.
Asia Argento ha, nel 1984, 9 anni, e vivrà una grave crisi e lacerazione dalla separazione tra Dario Argento e Daria Nicolodi, al tempo due mostri sacri dell’universo cinema italiano. Inevitabile pensare, allora, ad una strettissima connessione con le vicende di Incompresa, in cui vengono raccontate le tragiche avventure della piccola Aria (la baby prodigio Giulia Salerno), al centro di un ciclone di violenze, discrediti, accuse e rancori tra i suoi genitori separati. Autobiografico, dunque, il terzo film di Asia Argento (anche se lei sembra sminuire), dopo i dimenticabili Scarlet Diva del 2000 e il trash Ingannevole è il cuore più di ogni cosa del 2004. Un titolo, Incompresa, che come una sinossi dell’infanzia appare ironico e nostalgico, rievocativo di quell’Incompreso di Luigi Comencini che nel 1967 fu presentato, come questo film, al Festival del Cinema di Cannes.

Aria dunque, nel 1984, non è amata come lei vorrebbe. Il padre, divetto del cinema (un Gabriel Garko superstizioso e collerico) e la madre, pianista (una Charlotte Gainsbourg ninfomane e rabbiosa), sono inesorabilmente diversi tra loro. Sono ingombranti, irragionevoli, disattenti, lontani. Tra una scenata e l’altra, sembrano amare più le sue sorellastre, avute da precedenti unioni, che lei. Colpevolizzata per ogni cosa, Aria assiste e tace, unica piccola luce in quell’ambiente malato. Una separazione che Asia Argento osserva dal basso, dagli occhi della vittima incolpevole, che deve gestire il suo abbandono da sola. Tra egoismi e indifferenze no limits, non ascoltata, non capita, spesso neppure vista, Aria cerca di tramutare l’incombente dramma in opportunità. Essa inizia la sua lunga marcia, la strada è il suo rifugio e un gatto nero il suo confidente angelo custode. Aria affronta la sfida con quel sapiente distacco che le consente dapprima di acquisire immagini e suoni, poi elaborare consapevolezze e propositi, infine proiettarsi verso l’ avventura dell’ adolescenza.
Ondeggia tra la strada e le case dei due genitori, respinta ora dall’uno ora dall’altro, mentre il padre coltiva sogni di successo e la madre sprofonda in altre storie punk. Aria prova a fumare, a bere, a truccarsi, cerca in una amica quella sorella che non ha mai avuto, incespica sui primi tentativi di innamoramento. Mentre la sorellastra Lucrezia si rinchiude sempre più nel mondo rosa di Barbie, lei continua a studiare, vince il premio per il miglior tema dell’anno, si propone al suo tenero amore, organizza feste. Ma poi è di nuovo fuga e ritorno, impossibile scegliere tra il caos in casa e il caos fuori. Cerca di nuovo protezione dai genitori, ma sono loro a dover essere protetti. Le musiche metal picchiano sulle immagini. Aria oramai balla da sola, si attacca al seno della madre, vorrebbe solamente che le persone fossero un po’ più gentili. Scrive lettere di addio. Aria è una guerriera della notte, ma le guerre si vincono o si perdono.

Asia Argento, con appassionato impegno, calca la mano sulla povertà interiore e sulla confusione mentale degli adulti, mentre il bambino, quel bambino che resta sempre in noi, cerca di tenersi a galla alla ricerca di un approdo sicuro. L’intento di salvarlo è evidente, come evidente è il ricordo doloroso di suoni antichi e familiari, chissà quando uditi e in quali circostanze. Asia che tenta di salvare Aria, Asia che vorrebbe essere la regista della sua adolescenza. Ma ciò che è nella testa talvolta non si trasferisce in linguaggio cinematografico. L’intera vicenda si sviluppa in immagini orizzontali, sovrapponibili, che si allineano piatte come i seni di Aria. Diverse scene, anche forti, potrebbero essere collocate al posto di altre, stesse le urla, stessi i rancori, stesse le dinamiche. Come se, in fondo, quello che vive la protagonista fosse un unicum indivisibile e acronologico. Anche i protagonisti adulti strepitano e si sbattono, rullando sulla pista senza mai decollare; e senza decollo non si vola e non c’è emozione. Anche se alcune immagini rimangono vigorose, la storia nel suo insieme rimane confinata nell’oscurità, forse la stessa oscurità dei ricordi sgradevoli dell’infanzia. Il vagare innocente della piccola protagonista nella notte di Roma è descritto in maniera asettica e stereotipata. L’inserimento di alcune scene shock (l’arresto dei genitori, la festa dei bambini finita nel vandalismo) sono ingredienti non lievitanti se non gratuiti. Il dramma vissuto dalla piccola Aria lo si legge chiaramente, ma non lo si introietta. Si parteggia per lei, con tenerezza, ma senza passione. Il mondo dei grandi, maschere di disamore e di egoismo, appare percepito dalla bambina con troppa distaccata fissità, mentre l’ incombere della tragedia non appare supportato da eventi decisivi.
Non un film per bambini, che hanno ancora bisogno di supporti di mediazione per poter comprendere comportamenti genitoriali così ostili; forse un film per il bambino che è rimasto in noi, quel bambino che ora ha perdonato gli orchi cattivi di un tempo lontano. Un film sospeso a metà tra la terra dei grandi e il cielo dei piccoli, forse collocabile in quella nuvola grigia dell'infanzia dove pare essersi fermata la nostra sincera Asia Argento.

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