di Carlo Anderlini
Nel film Il mondo fino in fondo si parte del rapporto scazzoso tra Davide e Loris,
fratelli separati da sensibilità diverse. Davide e' gay, diciottenne stanco
della sua clandestinità sessuale, mentre Loris è ignaro di ciò, marito e quasi
padre, trentenne strutturato nell’azienda di famiglia e con l’ Inter nel cuore.
Durante una trasferta insieme a Barcellona al seguito degli ultras, Davide
conosce il cileno Andy, poche parole, molti tormenti e un po’ di lotta
ecologica. Andy è in fuga da se stesso, ma in Davide tutto muta, esce dal
carapace, lascia solo un biglietto al fratello e segue come un aquilone il suo nuovo
amico fino a Santiago. Lontano dal suo piccolo paese diffidente ed ottuso, subito
deluso nelle aspettative amorose ma contagiato dal dinamismo risoluto del
gruppo estremista e della sua leader Ana (la ex ragazza di Andy), Davide si impasta
confusamente di idee di lotta attivista facendosi coinvolgere anche in alcune
incursioni. Quando Andy molla tutto e va alla deriva nella lontanissima
Patagonia cilena, Davide e Ana si dirigono alla sua ricerca verso il Sud del
mondo ("Vuelvo al Sur, como se vuelve siempre al amor"). Loris, il
fratello, lo raggiungerà per non perderlo e per capire le ragioni della fuga. Oltre
i confini terrestri ed oltre i loro confini mentali, essi incontrano persone, si
confrontano e si scontrano, seguono il loro mantra, vivono. Ma into the wild non ci sono più nascondigli,
e insieme al goal dell’Inter qui la verità arriverà pura e sferzante come il
vento dei ghiacciai.
Il regista, soggettista e sceneggiatore Alessandro
Lunardelli esordisce con questo road-movie
di ampio respiro, e la sua è una duplice arditissima sfida. Seguire con rigore
e coerenza il doppio binario del percorso interiore di crescita di Davide e
dello scontro ecologico globale non è impresa da poco. Ed infatti qua e là
affiorano opacità e asimmetrie, la gestione dei protagonisti è talvolta senza
briglie, le tematiche spesso galleggiano a causa della loro sovrabbondanza e
l’impalcatura complessiva è poco ancorata. Il regista pare inoltrarsi pericolosamente
sull’ondivago sentiero del non luogo patagonico, in cui gli approdi non si
intravedono, qualcuno si perde per strada e un percorso vale l’altro;
l’importante, sembra dirci, è non fermarsi mai, come vale in fondo per ogni
percorso umano. Solo che l’opera sembra procedere e misurarsi più con un
obiettivo geografico finale invece che fondarsi sulla metabolizzazione finale
dei confronti identitari. Ma tutto questo, in un’opera prima che ha ricevuto un
contributo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e una buona
accoglienza al Festival di Roma, può anche essere giustificato. In fondo i nodi
cruciali del film sono sufficientemente dipanati e la perdita dell’innocenza
individuale e collettiva è testimoniata da precisi rintocchi scenici.
Come
succede, ad esempio, nei delicati passaggi di outing personale e familiare tra i due fratelli durante la ricerca
di Andy. Quando tra i due cala il grande silenzio del ghiacciaio, la bianca
verità occupa tutto lo spazio possibile, e parole mai dette finora dall'uno
diventano parole mai sentite prima dall'altro. Snodi familiari irrisolti, una
madre irrequieta che se ne andò via, lontani rancori insabbiati; goal, goal, e
poi il goal finale liberatorio, e la partita è finita. La reciproca fragilità
ha lasciato ora il posto alla fraterna leggerezza. Solo di fronte alla purezza
primigenia (mentale o fisica che sia), al di là di quella finis terrae che è in ciascuno di noi, si possono abbattere le
barriere mentali che deteriorano il senso del nostro vivere.
Come succede,
anche, nel percorso di lettura della realtà politico-ecologica: in un Cile ancora
irrequieto, che da trenta anni cerca a fatica di dimenticare il suo oscuro
passato, la lotta rivoluzionaria è limitata a interventi mediatici, condotti
con approssimazione da attivisti che “non vogliono far male a nessuno”,
desiderosi più di essere intervistati dal Times e di riconciliarsi con la loro
identità perduta che di salvare il mondo; mentre la paura e la diffidenza
sociale ancora ribollono sotto le antiche ceneri dell’odio e le multinazionali
inquinano anche i più lontani avamposti. Ma la salvezza individuale e
collettiva è nel farsi contagiare dalla bellezza, nelle grandi distese
inesplorate della nostra psiche, dove si scongelano i ghiacciai delle nostre
meschinità e dove non si è né a favore né contro, ma insieme.
Dedicato soprattutto
ad un pubblico giovane e abbastanza esigente, il film si avvale di una
interpretazione frenata di Davide (Filippo
Scicchitano, Scialla) e di un
sovraeccitato Loris (Luca Marinelli, lo sguardo de La solitudine dei numeri primi), nonché della battagliera e
malinconica Ana (Manuela Martelli). Ottima performance del tassista Lucho
(Alfredo Castro). Il film girato ad Agro (paese immaginario del Piemonte), a
Barcellona, a Santiago del Cile ed infine nei pressi della meravigliosa Laguna
di San Rafael, arriverà nelle nostre sale il 30 aprile.
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