di Luca Zanovello
Le
premesse antecedenti la realizzazione di Oculus
sono di quelle che restituiscono un po’ di romanticismo al cinema, e un pizzico
di speranza in più ai film makers indipendenti che cercano fortuna: il regista
Mike Flanagan aveva esordito nel 2005 con un omonimo cortometraggio che,
nonostante il budget minimo (1500 dollari) si portò a casa vari riconoscimenti
e, soprattutto, attribuì grande credibilità al suo autore. Tanto che quando
Flanagan lanciò una campagna di crowdfunding per produrre il suo primo
lungometraggio (Absentia, 2010),
raccolse quasi il doppio della cifra richiesta e, successivamente, venne notato
dal vicepresidente della Intrepid Pictures, che volle a tutti i costi
incontrare il regista. Da
qui, l’idea di sviluppare un film partendo dal cortometraggio Oculus.
Tutto
comincia da un passato traumatico: quello della famiglia Russell, o di ciò che
ne rimane. Quando
la polizia giunge alla loro abitazione, trova il piccolo Tim con una pistola in
mano e, a terra, entrambi i genitori morti. Dopo l’arresto e lunghi anni in un
istituto psichiatrico per minori, Tim (Brenton Thwaites, La Bella Addormentata) torna libero e viene ospitato dalla sorella
Kaylie (Karen Gillan, Dr Who), che
aveva condiviso con lui la tragica nottata di molti anni prima e che, al
contrario di Tim, è convinta che dietro a quelle morti ci siano degli
avvenimenti soprannaturali scatenati da un antico e prezioso specchio custodito
dai Russell. Kaylie è determinata a immergersi in un incubo infinito pur di arrivare alla
verità e riscattare l’innocenza di Tim. Inutile dirlo, verrà abbondantemente
accontentata.
Flanagan, nativo di Salem, tiene fede alle proprie origini orrorifiche e architetta
un solido thriller paranormale che attinge da Amityville Horror (1979, Stuart Rosenberg) e progenie ma che sa
anche sorprendere con qualche dettaglio spiazzante e originale.
Se il Male e l’oggetto che lo sprigiona non sono niente di nuovo, va
riconosciuto ad Oculus un grande
effetto claustrofobico, mostrando l’oscurità e ciò che essa contiene senza mai
estrarre i due personaggi protagonisti (gli ormai ventenni Tim e Kaylie) dalla
tetra abitazione che “ospita” lo specchio. L’ottima cura fotografica e degli
effetti visivi, insieme all’impeccabile regia, valorizza i (pochi) momenti
insanguinati; attorno, lunghe sequenze interlocutorie che ricostruiscono il
mistero ed accrescono la suspense grazie anche a qualche buffa trovata da
commedia nera. Il montaggio (dello stesso Flanagan) fa la spola, a volte in
maniera un po’ schizofrenica, tra i macabri eventi passati ed il presente in
cui i due credibilissimi protagonisti si avvicinano alla resa dei conti col
Maligno. È proprio
l’ottima gestione dell’inesorabile crescendo di manifestazioni soprannaturali e
di segnali sinistri il valore aggiunto di Oculus,
che non crolla mai sotto i colpi dei clichés e ogni tanto inquieta davvero.
Niente porte che scricchiolano e che si chiudono da sole, insomma, grazie al
cielo. Sintetizzando
la tradizione classica della ghost story e l’approccio tecnologico del found
footage, l’immaginario di Oculus
restituisce linfa a un sottogenere sfruttatissimo e, dopo il delirante Insidious di James Wan (ma senza tutte
quelle sbandate), regala soddisfazioni a chi - ancora nel 2014 - crede e cede
al fascino delle care, vecchie presenze infestanti. Occhio al finale, tra i migliori degli ultimi tempi.
Dal 10 aprile al cinema.
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