di Silvia Sottile
Sapevamo cosa aspettarci da La solita Commedia – Inferno, il film comico del duo Fabrizio Biggio e Francesco
Mandelli (I soliti Idioti) e purtroppo è andata esattamente come previsto. Anche
la più piccola speranza di salvare qualcosa si è rivelata vana. Ad essere
onesti non sentivamo il bisogno dell’ennesimo prodotto di basso livello che, distribuito
da Warner Bros in oltre 400 copie, arriva nelle nostre sale il 19 marzo.
Lo spunto di partenza, nelle intenzioni degli autori, non
vuole essere tanto una parodia della Divina Commedia quanto della società contemporanea
ma la spinta critica si rivela sterile e banale e si esaurisce praticamente subito
nel susseguirsi di scenette una dietro l’altra che spesso girano a vuoto.
L’inferno è nel caos: Minosse non riesce a gestire i nuovi
peccatori perché non sa in quale girone mandarli. Chiede aiuto a Lucifero, che a
sua volta va da Dio che convoca un consiglio di Santi dal quale emerge una
geniale soluzione: mandare Dante (Mandelli) sulla terra per catalogare tutti i
nuovi peccati e creare nuovi gironi, del resto sembra la persona adatta allo
scopo dato che se ne occupò secoli prima. Dunque Dante si ritrova catapultato in
una città del nord Italia (sembrerebbe Milano) al giorno d’oggi, dove Virgilio (Biggio), trentenne impiegato di un
supermercato, gli fa controvoglia da guida nel caos quotidiano.
Da qui sembra
quasi emergere l’assunto che l’inferno sia la vita di tutti i giorni, la realtà
che ci circonda. Ne escono una serie di sketch assurdi, più o meno comici,
molto surreali e ben poco divertenti (probabilmente nelle intenzioni avrebbero
dovuto far ridere molto di più) in cui gli stessi Biggio e Mandelli, con
parrucche, travestimenti e trucchi
posticci, insieme ad un piccolo manipolo di altri attori (Tea Falco, Marco
Foschi, Paolo Pierobon, Daniela Virgilio e Gianmarco Tognazzi, nel ruolo, tra
gli altri, di Padre Pio), interpretano innumerevoli personaggi. Abbiamo gli
hacker, il tiratore di pacchi, il maniaco dell’ordine e della pulizia, gli
adoratori di tragedie, i tecno incontinenti (ovvero dipendenti da smartphone
che addirittura vanno in un centro di recupero), i consumatori di bruttezza,
gli incapaci del wi-fi, ecc., distribuiti in pseudo gironi quali il bar alle 8
del mattino, il traffico all’ora di punta, il supermercato o il condominio. Ci
ritroviamo dunque di fronte ad un’accozzaglia di sketch, neanche ben
collegati tra loro, che sulla carta dovrebbero essere divertenti ma dai quali
emerge una comicità demenziale fine a se stessa, fiacca, sterile e con poco
mordente che stanca quasi subito. Che poi, a dirla tutta: ma si tratta davvero di peccati che meritano
l’Inferno?

Tralasciando la descrizione dell’aldilà ai limiti della
blasfemia (Dio che fuma e beve e si riempie di psicofarmaci, Gesù moccioso e
viziato, Lucifero all’ultima moda e i Santi che litigano tra di loro) e l’uso
eccessivo di parolacce senza una reale necessità, fa tanta tristezza anche l’immagine
dello stesso Dante, spaesato, che parla in rima. Probabilmente si starà
rivoltando nella tomba.
Neanche le note di Vivere
di Vasco Rossi sul finale riescono a risollevare la situazione. Una cosa però
bisogna riconoscerla: la canzone dei titoli di coda, Vita d’Inferno, presentata
quest’anno al Festival di Sanremo, resta in testa anche se controvoglia.
Possiamo augurarci che questo film rimanga un prodotto unico
e che, per omaggiare La Divina Commedia, non ne facciano una trilogia.
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