di Carlo Anderlini
Belleville, New Jersey, 1951. Quattro teenager cantano sotto
un lampione. “Quello è stato il massimo – dice
Frankie Valli alla fine del film – quando tutto scompariva e tutto
quello che restava era la musica”. Frankie, il leggendario leader dei Four
Seasons, gruppo pop che arrivò ai vertici delle classifiche discografiche dal
1959 al 1967 e la cui storia da nove anni entusiasma le platee di Broadway e
del mondo. Frankie che ancora oggi, a 80 anni, oramai da solista, fa il tutto
esaurito. Clint Eastwood – attore e
regista anch’egli senza tempo – consegna la sua e loro biografia al grande
schermo, con mano ferma e tratto delicato, ricavandone un album di ricordi da
sfogliare con grande attenzione.
L’amicizia di strada tra il candido Frankie (“…quello che
rincasa alle undici”) e lo spavaldo Tommy si salda tra microcriminalità di
quartiere e mito di Sinatra; ma è
soprattutto Frankie ad essere infatuato dell’amico, mentre Tommy è solamente
ambizioso e trainante. Ad essi si uniscono dapprima Nick, l’arrangiatore, e poi
Bob, il compositore. Tra furti e processi, protetti da un piccolo boss locale,
i quattro sognano la gloria musicale ma vengono respinti più volte da impresari
che chiedono solo quartetti neri, mentre ragazze che sanno di sapone già li
adorano. Frankie, cresciuto nel mito della famiglia e dell’amicizia, sposa
Mary, una ragazza di paese. Ma per sfondare occorrono tre cose: un nome, un
sound e dei soldi. All’improvviso tutto si risolve: “Four Seasons”, sa di vivaldiano e di fresco,
Tommy procura i soldi necessari e Bob, che nel frattempo ha imparato che fare
sesso “…è più divertente con un’altra persona”, sforna “Sherry”
che viene apprezzata dal produttore Crewe e che balza subito al n° 1
della Hit Parade. Frankie la voce, Tommy l’ambizione, Nick l’orecchio, Bob il
risolutore. Bob sforna altri tre successi mondiali. I Jersey Boys hanno
conquistato il mondo.
Clint Eastwood traccia l’affresco di un gruppo di ragazzi
legati da un’amicizia di tipo tribale, in cui la parola data è più di un
contratto ed in cui l’esperienza della galera è quasi un punto di onore. Nel
fare da guida a quei fatti lontani, le vicende sono raccontate con distacco e
ironia: questa è la chiave di saggezza del vecchio cowboy. Talvolta gli attori
bucano la cosiddetta quarta parete parlando direttamente alla camera, con il
pubblico coinvolto fin quasi all’interazione: una magia del regista, una tenera
furbata, così come quella di apparire di persona in una scena, come faceva un
altro grande, Hitchock.
Ma Clint Eastwood ci ha insegnato, nelle sue opere migliori,
che nulla è mai come sembra e che tutto è mutevole. In Mystic River fuoriescono
vecchi scheletri dall’armadio dei ricordi; in Million Dollar Baby la fatalità
stronca una carriera di gran successo; in Gran Torino vengono ribaltati
pregiudizi ostili. Ed egli non poteva allora non affascinarsi, con sapiente
mestizia, alla storia di quei bravi ragazzi che si dissolvono, in giacca e
cravatta, proprio all’apice della loro popolarità.
Vediamo dunque Frankie e Bob che si alleano sempre più, fino
a proporsi come distinta realtà musicale; Frankie perde la testa per una
giornalista rampante e si separa dalla moglie, nel frattempo divenuta
alcolista. Sua figlia lo prega di cantare per lei, ma Frankie è sempre più
lontano, anche se continua a ripetere che la famiglia è tutto. Durante l’Ed Sullivan Show, a quel tempo
ritenuto la consacrazione del grande successo, i quattro scoprono che Tommy ha
un pesantissimo debito con mafiosi e fisco. Nel corso di un drammatico
confronto col gruppo, Frankie, fedele al codice del Jersey, interviene di forza
per salvare l’amico di un tempo, poiché “…Tommy mi ha tolto dalla strada”. Ma a
quel punto gli eventi precipitano: Nick si sfila dal gruppo e la giornalista scende dalla giostra in cui si
era ritrovata. Frankie ha ora perso la famiglia, il gruppo, i soldi. Perderà
presto anche la figlia, e i sensi di colpa lo accompagneranno per sempre. Anche
i suoi produttori lo stanno per abbandonare, in quanto “…Frankie non è Sedaka”.
Ma quando tutto sembra perduto, con l’aiuto del fedele Bob, l’oramai ex leader
dei Four Seasons stupirà il mondo intero con la dolcissima e liberatoria “Can’t
take my eyes off you”, e il suo falsetto sarà di nuovo successo mondiale. Nel
1999, dopo 25 anni, i quattro Four Seasons si ritroveranno, incanutiti, in una
magica serata, durante la cerimonia del Vocal Group Hall of Fame.
La passione di Clint Eastwood per la musica è nota, ed il
regista è bravo a non annullarsi in essa. Il film è pieno di canzoni, ma non è
un film musicale, le note transitano sulle immagini senza sovrastarle, la
leggerezza delle vibrazioni allevia le ferite dei protagonisti. Gli interpreti
cantano dal vivo come in sala di incisione, perché la vita stessa è live, come
la vita di strada. E quella strada ove tutto ebbe inizio, fa da palcoscenico
alla grandiosa scena finale: quasi si fosse a Bollywood anziché a Los Angeles,
tutti cantano e ballano insieme, amici e nemici, mogli tradite e amanti, gay e
eterosessuali, poliziotti e gangster. Frankie Valli ancora oggi continua a
cantare, come Clint continua a dirigere. Ambedue hanno lottato e vissuto, sono
caduti e si sono rialzati più volte. Ognuno se la ricorda come gli fa più
comodo, e alla fine se la ridono di tutto.
Gli attori, magistralmente diretti ma sconosciuti ai più (tra
tutti John Lloyd Young alias Frankie Valli), sono gli stessi interpreti
dell’omonimo musical teatrale; Christopher Walken (che già cantò Can’t take my
eyes off you in una scena memorabile de Il cacciatore) è esilarante
nell’interpretare il lacrimoso gangster. Tom Stern, il direttore della
fotografia, ci pennella i favolosi anni ’60 con pastelli delicati e caldi.
Austero, incantevole, imperdibile.
Dal 18 maggio al cinema.
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