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mercoledì 28 maggio 2014

Mah...leficent

di Emanuela Andreocci

Esce oggi nelle sale italiane Maleficent, l'atteso film della Disney per la regia di Robert Stromberg che vede come protagonista una zigomatissima e ipnotica Angelina Jolie nei panni dell'omonima strega della favola de La bella addormentata nel bosco. Il film, fin dalla voce over/off iniziale che ci introduce alle prime immagini, si fa carico dell'ardito compito di raccontarci la vera storia di Malefica, una fata (perchè di una fata si tratta, nonostante le grosse ali scure e le corna facciano pensare ad altro) diventata cattiva per vendetta ma dall'animo disposto comunque all'accoglienza e all'amore.

La Brughiera, il meraviglioso regno in cui la protagonista vive, merita di essere visto al cinema e assaporato in 3D, regala creature fantastiche e sensazioni quasi sinestesiche, ma qui ci fermiamo: tanta estetica e poca sostanza. Il contesto e la bellezza ammaliante della Jolie non possono reggere l'intera durata del film: lo spettatore aspetta che succeda qualcosa, ma questo non avviene. 
Aurora, la bella principessa addormentata interpretata da una Elle Fanning curiosa e sognante, è sveglia per la maggior parte del film e distribuisce sorrisi e ingenuità a iosa; e tre colorate fatine, che non si chiamano Fauna, Flora e Serenella ma Fiorina, Giuggiola e Verdelia, sono caratterizzate molto nell'estetica ma poco nel rapporto con la loro protetta; Filippo, il principe azzurro, compare alla fine ma è come se non fosse pervenuto. 

Tutto si incentra quindi su Malefica, che svetta imperiosa come una leggera ma possente Nike di Samotracia, sul suo conflitto interiore e sul suo rapporto con Aurora che si trasforma gradualmente: l'odio iniziale per la bestiolina appena nata, grazie ad un rapporto a distanza durante la sua crescita e ad una progressiva conoscenza in età adolescenziale, diventa amore nel giorno del suo sedicesimo compleanno.
L'occhio, che vuole la sua parte, viene certamente accontentato dalla visione del film, ma la parte razionale che alberga in ogni spettatore non ne uscirà soddisfatta a causa di tempi gestiti negativamente, di pochi avvenimenti di rilievo e di una trama che poteva esaurirsi tranquillamente in un cortometraggio. Si potrà certamente obiettare che serviva del tempo per entrare in contatto con Malefica, per capire il suo stato d'animo e per motivare la sua evoluzione in "fata madrina", argomentazione certamente valida ma discutibile nella sua realizzazione.

Da notare inoltre (a chi legge stabilire se questo sia un bene o un male) che la pellicola (o almeno tutta la parte iniziale) non è adatta ad un pubblico di bambini in quanto mostra una cattiveria tangibile e inquietante che cresce e si propaga insieme all'oscurità che si espande sul meraviglioso regno magico. 
Le atmosfere tipicamente noir ed i personaggi dark e outsider ricordano molto l'universo Burtoniano, evocano temi cari al regista di Burbank ma senza centrare appieno il bersaglio.

L'happy ending finale non riesce a togliere la sensazione di un'occasione sprecata: il vero amore certamente esiste, ma non scocca con questo film.

lunedì 26 maggio 2014

"Incompresa": diventare grandi con l’arma dell’innocenza

di Carlo Anderlini

Tempus regit separationem. Doloroso e lacerante è, per tutti i protagonisti, affrontare una crisi familiare al tempo d’oggi, ma ancor più doloroso e lacerante era nel lontanissimo 1984, quando le conseguenze di amori che finivano erano vissute come sconfitte dal sapore disgustoso e contagioso.
Asia Argento ha, nel 1984, 9 anni, e vivrà una grave crisi e lacerazione dalla separazione tra Dario Argento e Daria Nicolodi, al tempo due mostri sacri dell’universo cinema italiano. Inevitabile pensare, allora, ad una strettissima connessione con le vicende di Incompresa, in cui vengono raccontate le tragiche avventure della piccola Aria (la baby prodigio Giulia Salerno), al centro di un ciclone di violenze, discrediti, accuse e rancori tra i suoi genitori separati. Autobiografico, dunque, il terzo film di Asia Argento (anche se lei sembra sminuire), dopo i dimenticabili Scarlet Diva del 2000 e il trash Ingannevole è il cuore più di ogni cosa del 2004. Un titolo, Incompresa, che come una sinossi dell’infanzia appare ironico e nostalgico, rievocativo di quell’Incompreso di Luigi Comencini che nel 1967 fu presentato, come questo film, al Festival del Cinema di Cannes.

Aria dunque, nel 1984, non è amata come lei vorrebbe. Il padre, divetto del cinema (un Gabriel Garko superstizioso e collerico) e la madre, pianista (una Charlotte Gainsbourg ninfomane e rabbiosa), sono inesorabilmente diversi tra loro. Sono ingombranti, irragionevoli, disattenti, lontani. Tra una scenata e l’altra, sembrano amare più le sue sorellastre, avute da precedenti unioni, che lei. Colpevolizzata per ogni cosa, Aria assiste e tace, unica piccola luce in quell’ambiente malato. Una separazione che Asia Argento osserva dal basso, dagli occhi della vittima incolpevole, che deve gestire il suo abbandono da sola. Tra egoismi e indifferenze no limits, non ascoltata, non capita, spesso neppure vista, Aria cerca di tramutare l’incombente dramma in opportunità. Essa inizia la sua lunga marcia, la strada è il suo rifugio e un gatto nero il suo confidente angelo custode. Aria affronta la sfida con quel sapiente distacco che le consente dapprima di acquisire immagini e suoni, poi elaborare consapevolezze e propositi, infine proiettarsi verso l’ avventura dell’ adolescenza.
Ondeggia tra la strada e le case dei due genitori, respinta ora dall’uno ora dall’altro, mentre il padre coltiva sogni di successo e la madre sprofonda in altre storie punk. Aria prova a fumare, a bere, a truccarsi, cerca in una amica quella sorella che non ha mai avuto, incespica sui primi tentativi di innamoramento. Mentre la sorellastra Lucrezia si rinchiude sempre più nel mondo rosa di Barbie, lei continua a studiare, vince il premio per il miglior tema dell’anno, si propone al suo tenero amore, organizza feste. Ma poi è di nuovo fuga e ritorno, impossibile scegliere tra il caos in casa e il caos fuori. Cerca di nuovo protezione dai genitori, ma sono loro a dover essere protetti. Le musiche metal picchiano sulle immagini. Aria oramai balla da sola, si attacca al seno della madre, vorrebbe solamente che le persone fossero un po’ più gentili. Scrive lettere di addio. Aria è una guerriera della notte, ma le guerre si vincono o si perdono.

Asia Argento, con appassionato impegno, calca la mano sulla povertà interiore e sulla confusione mentale degli adulti, mentre il bambino, quel bambino che resta sempre in noi, cerca di tenersi a galla alla ricerca di un approdo sicuro. L’intento di salvarlo è evidente, come evidente è il ricordo doloroso di suoni antichi e familiari, chissà quando uditi e in quali circostanze. Asia che tenta di salvare Aria, Asia che vorrebbe essere la regista della sua adolescenza. Ma ciò che è nella testa talvolta non si trasferisce in linguaggio cinematografico. L’intera vicenda si sviluppa in immagini orizzontali, sovrapponibili, che si allineano piatte come i seni di Aria. Diverse scene, anche forti, potrebbero essere collocate al posto di altre, stesse le urla, stessi i rancori, stesse le dinamiche. Come se, in fondo, quello che vive la protagonista fosse un unicum indivisibile e acronologico. Anche i protagonisti adulti strepitano e si sbattono, rullando sulla pista senza mai decollare; e senza decollo non si vola e non c’è emozione. Anche se alcune immagini rimangono vigorose, la storia nel suo insieme rimane confinata nell’oscurità, forse la stessa oscurità dei ricordi sgradevoli dell’infanzia. Il vagare innocente della piccola protagonista nella notte di Roma è descritto in maniera asettica e stereotipata. L’inserimento di alcune scene shock (l’arresto dei genitori, la festa dei bambini finita nel vandalismo) sono ingredienti non lievitanti se non gratuiti. Il dramma vissuto dalla piccola Aria lo si legge chiaramente, ma non lo si introietta. Si parteggia per lei, con tenerezza, ma senza passione. Il mondo dei grandi, maschere di disamore e di egoismo, appare percepito dalla bambina con troppa distaccata fissità, mentre l’ incombere della tragedia non appare supportato da eventi decisivi.
Non un film per bambini, che hanno ancora bisogno di supporti di mediazione per poter comprendere comportamenti genitoriali così ostili; forse un film per il bambino che è rimasto in noi, quel bambino che ora ha perdonato gli orchi cattivi di un tempo lontano. Un film sospeso a metà tra la terra dei grandi e il cielo dei piccoli, forse collocabile in quella nuvola grigia dell'infanzia dove pare essersi fermata la nostra sincera Asia Argento.

giovedì 22 maggio 2014

"X-Men: Giorni di un futuro passato" - Mutanti a spasso nel tempo

di Luca Zanovello

Giunta al quinto capitolo, la saga degli X-Men fa finalmente il botto: Bryan Singer (I Soliti Sospetti, Superman Returns) tenta l’ambizioso progetto di conciliare la trilogia dei mutanti Marvel col più recente prequel (X-Men: L’inizio) e regala ai fan il primo vero filmone, nelle sale italiane dal 22 maggio con un giorno d'anticipo rispetto l'uscita negli Usa.

Il racconto si gioca su due differenti linee temporali: la prima, parte di un futuro post-apocalittico, vede i superstiti X-Men alle prese con feroci e distruttive sentinelle, arma robotica ultimata dal governo per la lotta al mutante.
Conscio del fatto che questo comporterebbe una frattura decisiva fra la razza umana e quella mutante, se non addirittura la fine di entrambe, il Professor Xavier (Patrick Stewart) chiede a Wolverine (Hugh Jackman) di farsi un viaggetto nei lontani anni ’70, per trovare il giovane Professore di allora e aiutarlo ad impedire che quel destino si compia.
Mentre i reduci difendono il loro ultimo rifugio dall’attacco delle sentinelle, Shadowcat (Ellen Page) utilizza i suoi poteri mentali per mandare Logan verso un passato che può determinare la rinascita, o al contrario la fine, delle due razze e del mondo che abitano.
Quando “l’uomo dal futuro” convince Xavier e Bestia a bloccare il progetto-sentinelle dello scienziato Trask (l’onnipresente attore nano Peter Dinklage), il gruppo si rende conto di avere bisogno dell’aiuto “magnetico” di un vecchio amico-nemico. E’ il modo per riunire, tra passato e futuro, una combo impressionante di personaggi sotto la minaccia di una guerra mai così grande.

Così descritto, è vero, il concetto alla base di Giorni Di Un Futuro Passato può apparire caotico: del resto, si tratta essenzialmente di un seguito biforcuto, sia del terzo X-Men che del successivo prequel.
In realtà, un Singer finalmente ispirato da capo a fondo e una sceneggiatura solidissima rendono tutto più chiaro e, ancor più importante, divertente. Perché vedere Logan catapultato suo malgrado negli affascinanti 70s, alle prese con gli scettici ed imberbi futuri compagni di avventure vale da solo il prezzo del biglietto.
Presto, però, i toni mutano e il sangue inizia a scorrere: sapientemente, Singer fa esplodere un conflitto titanico fatto non soltanto di botte e superpoteri in tre dimensioni (sebbene sia tutto, finalmente, bellissimo), ma anche di conflitti interiori, emozioni e crescita dei personaggi. Pur con un paio di marce in meno, la serie fa proprio l’insegnamento dell’epica trilogia del Batman di Nolan scandagliando l’animo degli eroi in maniera quasi scientifica e regalando al film una profondità e un ventaglio di chiavi di lettura mai viste nei precedenti tentativi.

Il ping pong temporale tra ieri e domani scorre senza intoppi o tempi morti, inanellando scontri fisici e crucci mentali azzeccatissimi. L’aspetto più interessante è il “triangolo” distruttivo composto dall’ambigua Mystica e i due rivali Xavier e Magneto: in esso, ritroviamo i temi più belli e significativi della pellicola: il potere, l’amore, la diversità e la sopravvivenza.
Una volta tanto, le tre dimensioni non sono un mero optional e regalano ulteriore spettacolarità alle tante sequenze “megalomani”. Perché un film di supereroi un po’ megalomane deve esserlo, ma con stile e cuore. X-Men – Giorni Di Un Futuro Passato ha tutto questo e, per i seguaci dei Mutanti di Stan Lee, è ben più di un cerchio che si chiude.


Attendiamo che X-Men: Apocalypse, previsto per il 2016, ci dica se la buona strada è stata definitivamente imboccata.

giovedì 15 maggio 2014

"Solo gli amanti sopravvivono" - Vampiri d'autore

di Luca Cardarelli

Scordatevi l'aglio, gli specchi, la supervelocità e tutte le leggende (salvo quella di cui in Twilight se ne sono bellamente fregati, ovvero quella dell'intolleranza ai raggi ultravioletti) che ci hanno inculcato sin dalla tenera età sui colleghi del Conte Impalatore. Jim Jarmusch, l'autorevole regista e sceneggiatore di Only lovers left alive (questo il titolo originale di Solo gli amanti sopravvivono), ha una visione tutta personale di questi strani esseri su cui valanghe di storie, racconti, romanzi e film sono stati realizzati sin dai più remoti tempi. Qui i vampiri bevono il sangue in calici minuscoli, se lo procurano in ospedale o da altri vampiri fidati e, addirittura, lo gustano sotto forma di ghiacciolo (geniale!).

Tom Hiddleston (già apprezzatissimo nei panni dell'ambiguo Loki nei due episodi del Marveliano Thor), Tilda Swinton (che non ha avuto bisogno di eccessivi artifici cosmetici) e Mya Wasikowska (l'Alice di Burtoniana memoria) vestono perfettamente gli abiti da succhiasangue che Jarmush ha fatto loro indossare in questa eccentrica pellicola.
In un gioco di continue allusioni al mondo vampiresco "mainstream" e conseguenti ironie sullo stesso, Jarmusch dipinge un quadro a tinte "dark" in cui vi sono due vampiri innamorati che hanno viaggiato nei secoli incarnando le più famose personalità in ambito culturale e scientifico e ora si trovano a distanza di migliaia di chilometri l'uno dall'altra: Adam vive da musicista un po' bohemien nella decadente, se non già decaduta, Detroit, mentre Eve abita a Tangeri, città che, anch'essa, non se la passa per niente bene. 
I due si ricongiungono in quel di Detroit per proseguire la loro storia d'amore. Ma poi compare anche la sorella di Eve, Ava, il cui nome da diva tradisce non a caso la sua provenienza dalla città che di dive ne ospita più di tutte le altre: Los Angeles. Ed è Ava l'elemento di rottura (in qualsiasi senso vorrete leggerlo andrà bene) che si interpone tragicamente tra i due vampiri, la cui caratteristica comune è una quasi disarmante calma che sfocia nell'abulia e nella voglia di rimanere nascosti nei loro antri senza vedere nessuno (salvo pochissimi ma fedelissimi e servizievolissimi "Zombie", cioè persone ancora "vive"), e senza fare alcunchè. A causa di Ava i due saranno costretti a fuggire da Detroit dove sembrava avessero trovato il loro perfetto nido d'amore con il sangue sempre a disposizione (Adam in versione "Doctor Faust" con camice bianco e stetoscopio è tutto un programma!). Una volta arrivati a Tangeri, si troveranno a fare i conti con una carestia che metterà a serio rischio la loro sopravvivenza a causa della scomparsa del vampiro Marlowe (John Hurt), legatissimo ad Eve, suo fornitore di sangue "pulito", letterato le cui opere vengono erroneamente ascritte a Shakespeare. Marlowe muore proprio a causa di una dose di sangue infetto - vampiri che muoiono di malattia, che stregoneria è mai questa?!

Viaggia, Jarmush, su questo filo di sottile ironia ma di robustissimo impatto visivo e scenografico, dove a scenari deprimenti tipici di città in decomposizione si oppongono rifugi claustrofobici oscuri e un po' tetri come i personaggi che li abitano, pieni all'inverosimile di cianfrusaglie più o meno vintage (ricorrente il tema del 45 giri, e curioso il fatto che Adam usi come video-telefono un vecchio televisore anni '60 collegato ad un Pc portatile, mentre la Sorella Eve è più "avanti" e ha un Iphone). Quindi il Vecchio e il Nuovo che si scontrano. Jarmusch magistralmente affronta questo tema raccontandoci, alla fine, nient'altro che una storia d'amore infarcita di citazioni colte che faranno sorridere lo spettatore che per la prima volta avrà la possibilità di vedere vampiri morire non per colpa del sole che li colpisce all'improvviso o per paletti di frassino conficcati nel petto. L'infezione del sangue potrebbe essere vista come una forte critica ai tempi moderni, la cui caratteristica principale è la corruzione: umani zombie corrotti e ignoranti (i medici prendono le mazzette per fornire sangue fresco ai vampiri) e vampiri superacculturati e molto riflessivi. Si direbbe quasi di assistere ad un film scritto da William Shakespeare e diretto da Charles Bukowski, o anche viceversa, per la commistione tra romanticismo e tematiche sociali presenti nel racconto.
Un film, dunque, tutto da gustare e da vedere e rivedere, per apprezzarne la genialità e l'innovazione apportate dal talentuosissimo Jim Jarmusch.
Nelle sale dal 15 maggio.

mercoledì 14 maggio 2014

"Godzilla": il Mostro risorge dalle ceneri

di Luca Zanovello

Sedici anni dopo l’ultima mediocre apparizione (Godzilla, Roland Emmerich 1998), torna il 15 maggio al cinema il mostro cinematografico più famoso del mondo.
La versione 2014 di Godzilla è affidata a Gareth Edwards - regista che aveva già dimostrato di sapersi destreggiare bene in scenari “mostruosi” (Monsters, 2010) - e tenta di rinnovare e risollevare la reputazione del leggendario ed antesignano kaiju, riallacciandosi per molti aspetti proprio alle sue primissime apparizioni, quelle made in Japan nei lontani anni 50.
Se gli esiti catastrofici sulle metropoli e sui loro abitanti sono gli stessi, nel film di Edwards la strada che conduce alla distruzione è più elaborata e particolare di quella del suo predecessore (nonché di quasi tutti gli innumerevoli capitoli della saga): quando due gigantesche e misteriose uova covate per decenni nel sottosuolo danno vita a dei raccapriccianti e distruttivi parassiti insettiformi, l’umanità è costretta ad armarsi fino ai denti per respingere l’attacco. La situazione sembra complicarsi ulteriormente con la comparsa di Godzilla, preistorico lucertolone risvegliatosi dal fondo dell’oceano: la Natura ha però strani modi di mantenere il suo millenario equilibrio e così, forse, Godzilla sarà proprio il mezzo migliore per combattere i nuovi flagelli. Sullo sfondo di un epico combattimento inter-mostri, l’umanità annaspa nel suo splendido e autodistruttivo egocentrismo, sperando ancora una volta di sfuggire alle proprie responsabilità.
Seguendo l’immancabile e un po’ prevedibile odissea del soldato Ford Brody (Aaron Taylor-Johnson, Kick-Ass, Le Belve), figlio del profetico scienziato Joe (Bryan Cranston, Breaking Bad), percorriamo Giappone, Filippine, Hawaii ed infine i cari vecchi Stati Uniti sulle orme di tre creature spaventose e titaniche.
Nonostante qualche cliché da kolossal catastrofico, il nuovo Godzilla vince la scommessa in un non facile mix fra tradizione e futuro, unendo budget ed effetti speciali da urlo ad un’estetica e ad alcune dinamiche mutuate tout court dalla tradizione del Gojira nipponico, a partire dall’aspetto del vero ed acclamato protagonista della pellicola, un Godzilla mai così eroe, mai così “umano”. Se i comprimari “Muti” sono spaventosi e del tutto malvagi, il lucertolone diventa una sorta di deus ex machina in un ruolo ben congegnato e di profonda empatia.

Era legittimo avere qualche riserva sulle doti di Edwards, quasi esordiente, eppure sotto la sua direzione la leggenda godzilliana non solo non naufraga, ma rinasce. Poco male se il 3D (come troppo spesso accade) non aggiunge nulla al dinamismo e alla profondità del film: il regista vince sul versante tecnico con una regia fluida e spettacolare e con un team grandioso che consegna una fotografia elegantissima (Seamus McGarvey, We Need To Talk About Kevin, Anna Karenina) e le suggestive scenografie di Owen Paterson (The Matrix, Priscilla La Regina Del Deserto).
Non solo stile, però: Godzilla 2014 è un racconto che mischia ottimamente una struttura classica coi ritmi e l’estetica contemporanea, concedendosi qualche sbavatura retorica in pochissimi momenti; il resto soddisferà un po’ tutti, dagli amanti dell’azione a quelli dei monster-movies (con Pacific Rim e The Host di Bong Joon-ho è il migliore dei tempi recenti), fino ai piccoli fan dei bestioni preistorici.

Una manovra benevolmente populista, certo, ma che ha il merito di rilanciare una leggenda lunga 60 anni e che, ultimamente, aveva perso un po’ di smalto.
Il momento che sintetizza meglio il fascino della pellicola è uno dei combattimenti finali fra Godzilla e i Muti: una spessa e tetra nube di polvere e detriti incornicia la lotta spettacolare e furibonda mentre in basso, tra le macerie, giace “l’arroganza dell’uomo di pensare di avere la natura sotto il proprio controllo e non l’esatto contrario”.

domenica 11 maggio 2014

"Pinuccio Lovero. Yes I can": di politica si può morire?

di Carlo Anderlini

Non se lo sarebbe mai aspettato, Pinuccio Lovero, custode del cimitero di Mariotto e poi di quello di Bitonto, di essere scovato nel 2007 dal regista Pippo Mezzapesa e divenire il protagonista del documentario Sogno di una morte di mezza estate che fu presentato con qualche successo al festival di Venezia e che proiettò per qualche tempo Pinuccio tra le braccia dei più noti anchormen televisivi. Quell’opera consegnò alla ribalta mediatica la quotidianità di un quarantenne che già da bambino conviveva tranquillamente con l’immagine della morte e sognava di divenire, da grande, “custode a livello cimiteriale”. Becchino, insomma.
Il filone dei film che esplorano le esistenze di oscuri anti-eroi della nostra epoca cattura da sempre l’attenzione dei cinefili più arditi con budget limitato, ed in quest’ultimo periodo tale fenomeno si è accentuato, testimoniato dal successo di critica, se non di pubblico, di opere pregevoli quali Sacro GRA e TIR. E quindi, ora che Pinuccio Lovero ha una compagna stabile con la quale fa seri progetti di vita, ha rinforzato il suo ego e ha tentato di fare, nel suo piccolo, il grande salto di farsi eleggere consigliere comunale presso il Comune di Bitonto, questa sua nuova avventura non poteva sfuggire al suo mentore, di nuovo Pippo Mezzapesa, che per un mese lo ha seguito nelle varie fasi della sua avventura elettorale, ricavandone “Yes I can”; un docu-fiction farsesco-paradossale di 70 minuti che è stato presentato e accolto con benevolenza da critica e pubblico al penultimo Festival del Cinema di Roma e che arriverà nelle sale il 15 maggio. 

Il programma elettorale di Pinuccio è tutto incentrato sui suoi interessi primari: cimitero più pulito, più loculi e ossari per tutti, nuove fontane per i fiori, panchine per gli anziani e bagni per i disabili; lo slogan “Pensa al tuo domani” condisce il tutto. Il regista pugliese (ZinanàCome a Cassano, L’Altra MetàIl Paese delle Spose Infelici) lo segue ovunque, nella sua sgangherata campagna elettorale per la SEL di Nichi Vendola. Di casa in casa, di parente in parente, il candidato si mostra amabile, genuino, sereno, si esprime con parole e gesti semplici (ha la terza media serale), e la sfida delle elezioni politiche ne esalta pregi e criticità. Vestito da becchino, Pinuccio fa propaganda e cerca voti attraverso contatti semplici con personaggi semplici, prima d’ora invisibili, in uno spaccato di minimale autenticità paesana, quasi una Macondo di marqueziana memoria. Si muove con vitalità ma con difficoltà e, tra meschinità di bottega e diffidenze dei compaesani, ci confida i suoi teneri desideri di paternità e le speranze di divenire attore (il cimitero è oramai la sua prigione). Durante la campagna elettorale, le votazioni e le post-elezioni, Mezzapesa cerca forse un po’ di svelare quale porzione del controverso Pinuccio c’è in noi, se i suoi sogni, i suoi trasformismi, i suoi crucci e i suoi fallimenti, pur nei diversi contesti, possono avere il DNA dell’universalità. Bitonto come l’Arizona, “terra di sogni e di chimere”. Cerca forse anche di smitizzare l’illusione della celebrità che è in noi tutti per ricondurla a consapevolezza di normalità; ci sarà tempo, per il nostro Pinuccio-Godot, per un altro sogno, perché “…il cuore è uno zingaro, e va”. Ma attraverso gli occhi del regista si vola basso soprattutto su un piccolo mondo antico, alla deriva, viscerale nella difesa dei suoi particolarismi, destinato inevitabilmente all’estinzione per eccesso di meschinità. Una testimonianza prima della sparizione, un voler dire “C’ero anch’io”, un appassionato inno d’affetto e di critica ad un mondo che forse già fu. 

Mezzapesa, che può per certi versi anche apparire indeciso nelle sue scelte e poco distaccato, sembra sussurrarci con dolcezza: osservate, non giudicate, magari, se potete, ricordate. Nel bene e nel male, egli registra attimi e pensieri, redige un documento di identità di uomini e luoghi dai ritmi leggeri e dilatati, pretendendo di consegnare un qualcosa alla memoria. Un piccolo diario attraverso gli occhi umidi e lo sguardo scanzonato di Pinuccio: metà uomo, metà maschera, multisfaccettato; da una parte, grottesca ed autentica animalità provinciale; dall’ altra, personaggio di Ionesco talvolta consapevole di essere in transito da se stesso. Il film-report è tutto qui, racchiuso tra le strette mura dei flash caratteriali e degli sguardi fuggenti:  è nell’impepata di cozze che la compagna di Pinuccio ha preparato, è nel portare in processione la statua di San Michele, è nei gesti scaramantici dei vicoli. Poco sembra importare, al regista, l’ approfondimento dei tanti personaggi o il tracciamento di un sentiero narrativo: egli testimonia e traghetta, con la sua musica bandistica funeraria, Pinuccio e l’intero paese all’impietoso funerale della politica, al fallimento del progetto di essere eletto, all’irreversibile estinzione di una cultura dal sapore malato. La clip finale di Nichi Vendola, seduto sui gradini a rincuorare Pinuccio, ha i ritmi lenti della campagna pugliese, dove “…prima viene la semina e poi il raccolto”. Ed infatti, contemporaneamente all’uscita nelle sale, la produzione lancerà un’impegnativa “Casa Lovero”, una giocosa web sit-com quotidiana, che continuerà a seguire il nostro, ormai consapevole, Truman bitontino nel suo quasi surreale ambiente. Forse lo vedremo anche partecipare al cast dell’ Isola dei famosi  e girare un film con Checco Zalone. 


Che dire allora? Pinuccio, yes, you can!

giovedì 1 maggio 2014

"Alabama Monroe - Una storia d'amore": un cerchio pieno di spigoli.

di Luca Cardarelli

Descrivere Alabama Monroe - Una storia d'amore, in arrivo nei nostri cinema l’8 maggio, può risultare, apparentemente, molto facile: è un film sull'amore e sulla morte. La pellicola, che vede come protagonisti assoluti Didier (Johan Heldenbergh, che già compare in altri due film del regista) ed Elise (Veerle Baetens), ci presenta, in realtà, un variopinto quadro composto da temi importanti quali la famiglia e la religione mescolati con altri altrettanto importanti come l'etica e la ricerca scientifica, con un sottofondo di musica Bluegrass (l'essenza del Country) che amalgama il tutto in un armonico impasto. Il belga Felix Van Groeningen, regista nonché sceneggiatore insieme a Carl Joos, appoggiandosi alla pièce teatrale scritta dallo stesso Johan Heldenbergh, ha dipinto con maestria e dovizia di particolari la storia d'amore tra la tatuatrice Elise ed il musicista Didier, dalla genesi all'inevitabile fine. I continui flashback e flashforward sono alternati anche a livello di emozioni (i primi raccontano la felicità, i secondi la tristezza) e il film scorre lungo le note continue di musica Bluegrass che funge da perfetto involucro alle vicende narrate: un velo superficiale di allegria che cela sotto di sé infelicità, tristezza e malinconia.

Candidato all'Oscar come miglior film straniero (poi andato alla Grande Bellezza di Sorrentino) The broken circle breakdown (questo il titolo originale) è una pellicola molto particolare, molto ben realizzata, il cui fine è la riflessione sul modo in cui vadano affrontati problemi delicati come, ad esempio, lo spiegare che ne sarà di noi ad una bambina che, seppur piccola, è consapevole della propria malattia che la porterà, presto o tardi, alla morte. Van Groeninghen, a nostro avviso, affronta questa tematica in maniera molto saggia e delicata, senza scadere mai nel banale o nel già visto, ma con l'animo di un genitore: Didier, ateo, vorrebbe (ma non può) spiegare alla figlia che dopo non c'è niente, solo buio e vuoto,  ma preferisce lasciarla libera di credere ciò che vuole. 
E poi c'è l'America: Didier ama l'America, il luogo dove tutti hanno una possibilità, il luogo dove la sua più grande passione (la musica Bluegrass) è nata. Ma, sempre sul binario dei contrasti di cui è pieno il film, arriva ad odiarla con tutto se stesso una volta che la figlioletta muore perché la scienza non è avanzata al punto di farla guarire, prendendosela, a torto o a ragione (non saremo noi di sicuro a stabilirlo) con chi, per motivi etici, o meglio, religiosi, non ha permesso, o ha rallentato sensibilmente, il cammino della ricerca, pur consentendo senza porre freni l'evoluzione tecnologica nella produzione di armi da impiegare nelle guerre. 
Infine, ennesimo contrasto evidenziato in Alabama Monroe, è quello che viene a crearsi tra i due protagonisti: Didier fa della disillusione e di un certo materialismo il suo marchio di fabbrica, mentre Elise è molto più spirituale e sognatrice. E questa divergenza, che la morte della piccola Maybelle ha reso insanabile, porterà alla separazione tra i due. Separazione dolorosa e tragica, come del resto lo è la perdita di una figlia per i genitori. Scopriremo poi, alla fine, che un po' dell'animo di Didier è penetrato in Elise e viceversa, anche grazie al consueto gioco di contrasti cui sembra così affezionato Van Groeningen.

Un ottimo film in sostanza, caratterizzato da una sceneggiatura molto accurata ed una colonna sonora eccezionale (soprattutto per i cultori del genere country). Un film che pugnala al cuore lo spettatore, non solo sul finale, ma per tutte le sue quasi due ore di durata. Appare quindi giustificatissima la sua candidatura agli ultimi Academy Awards, ma sono altrettanto palesi i motivi per i quali non si sia aggiudicato l'ambita statuetta, rappresentando una feroce critica al mondo a stelle e strisce, anch'esso pieno di contrasti e contraddizioni che tanto lo fanno amare quanto odiare.