di Carlo Anderlini
Dall’ultimo romanzo di Federico Baccomo (già autore nel 2009
di Studio illegale da cui venne tratto il film con Fabio Volo) esce nelle sale
il 30 gennaio La gente che sta bene per
la regia di Francesco Patierno.
Il film racconta le vicende di Umberto Dorloni (Claudio
Bisio), avvocato d’affari di successo in un prestigioso studio internazionale,
il quale, cialtrone sul lavoro e assente a casa, cavalca spavaldamente la sua
carriera senza apparenti ostacoli, ignorando sia la crisi economica (che «in
città si misura dallo stato di salute dei piccioni»), sia le vistose
problematiche che incombono sulla moglie Carla (una inascoltata, ma misurata e
solida Margherita Buy che su richiesta del marito ha lasciato il lavoro per
intraprendere «la carriera genitoriale») e sui figli ( «Se si fanno in tarda
età, come si fa a sgridarli?»).
Il successo e i soldi («Ci si realizza quando ti pagano»)
sono l’unico target possibile del nostro protagonista, lavoro e famiglia come
unicum aziendale.
Umberto ha sempre la battuta pronta, spesso fuori luogo,
possiede energia e sfrontatezza, ascolta e accudisce solo se stesso, lavora la
domenica pomeriggio, è simpatico e
trascinante, ma sa essere anche subdolo, imbroglione, viscido, furbastro e
cinico. Il regista lo affida al giudizio dello spettatore senza rete di
protezione, sul filo della satira sociale più pungente.
La storica commedia
all’italiana – dove lo spettatore accetta di parlare dei propri difetti ma solo
a patto che se ne rida – è assente, non c’è posto per essa - nella visione dello scrittore prima e del
regista poi – in questa Italia schiacciata dalla crisi, dove gli avvocati si
ritrovano camerieri e dove si può restare a galla – come nel recente film di Virzì - solo attraverso amoralità e bassezze di
ogni genere.
Anche Alberto è vittima della crisi che travolge uomini e
mercati, e la sua intoccabilità viene spazzata via all’improvviso da un
inaspettato licenziamento (tocca a lui ora sentirsi dire «Vedila come
un’opportunità»). Ed è da qui che l’egocentrismo del personaggio e la sua
ferrea volontà di farcela riveleranno i suoi lati più oscuri e
scorretti. Tra i lupi della foresta, però, vi è un altro capobranco (l’ avvocato
Azzesi, un poderoso Diego Abatantuono), al tempo stesso mastino e sciacallo,
che sa leggere i labiali e che gioca altrettanto sporco.... Nel dipanarsi della vicenda (che vede sempre più coinvolta
la moglie di Azzesi (Jennipher Rodriguez, venezuelana dalla «sensualità
andalusa»), Umberto giocherà tutte le sue carte più meschine, perdendo
inevitabilmente pezzi della sua vita e, interamente, se stesso. Solo quando il
suo specchio umano gli restituirà l’immagine di ciò che è divenuto, la sua
scelta sarà dirompente, liberatoria e definitiva. Girato tra Roma, Milano e Berlino, sostenuto giustamente dal
Ministero per i Beni e le Attività Culturali in quanto riconosciuto di
interesse culturale, La gente che sta bene esplora efficacemente la
quotidianità di una umanità sbruffona e carrieristica che attraverso simpatiche
bastardate e inconfessabili viltà si procura soldi e successo, ma anche
autolesionismi e fragilità, autoiniettandosi inevitabilmente il virus di una
disperazione da cui, per chi ne è consapevole, potrà nascere un nuovo e più equilibrato
stile di vita.
Patierno conduce il dipanarsi della vicenda con taglio
sereno, non critico, limitandosi ad osservare senza sentenziare; lo
spettatore si affianca a Umberto e se ne distacca, non è mai neutrale: la
simpatia del protagonista non viene accettata supinamente, ma viene percepita
come passepartout per manipolare le altrui coscienze. Si ride anche, ma in
tono misurato. Quello che il regista ci consegna è un Umberto iperattivo ma non
macchiettistico, detestabile senza esserne cosciente («l’aborto è una decisione
implementata»), tenero infine nel suo disorientamento.
L’ impianto narrativo, sorretto da una sceneggiatura
frizzante ma mai eccitata, è apprezzabilmente realistico. Il dipanarsi della
vicenda è ben strutturato, le situazioni e i personaggi appaiono credibili: la
vita altalenante come un indice di borsa, il predatore che diviene preda, la
caduta vista come generatrice di un’altra vita possibile. In passaggi che
appaiono ben messi a fuoco, la commedia si fa gradualmente dramma.
Il coinvolgimento
dello spettatore è evidente, merito del regista, delle musiche adeguate e degli
attori, piccoli grandi colossi italiani che sorreggono con bravura e
visceralità l’impalcatura filmica. Perfetto il cameo finale di Carlo
Buccirosso.
In questo notevole equilibrio narrativo e situazionistico e
nella bravura degli interpreti c’è dunque il pregio del film che, senza
aspirare a diventare un’icona della filmografia contemporanea, appare in linea
con le aspettative di chi rifugge da banalità e gratuita sciatteria.
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