di Silvia Sottile
Presentato in concorso al 69° Festival del cinema di Cannes, Julieta rappresenta un ritorno di Pedro Almodóvar a un tema a lui molto caro, ovvero l’esplorazione dell’universo femminile, utilizzando, nello specifico, un registro esclusivamente drammatico.Julieta (Emma Suàrez) sta per trasferirsi in Portogallo col compagno Lorenzo (Dario Grandinetti). Un giorno, dopo un incontro casuale, viene a sapere che la figlia Anthìa, di cui non sa nulla da oltre dieci anni, vive in Svizzera. Decide dunque di rimanere a Madrid, torna a vivere nel suo vecchio appartamento e rievoca i dolorosi ricordi del passato attraverso l’espediente di una lunga lettera scritta alla figlia. Vediamo, quindi, come Julieta da giovane (Adriana Ugarte) conobbe su un treno il pescatore Xoan (Daniel Grao), il padre di Anthìa, e si trasferì con lui in Galizia, fino al drammatico evento che le sconvolse la vita. Una tragedia che invece di unire madre e figlia, le ha separate.
Ispirato ad alcuni racconti della scrittrice canadese premio
Nobel Alice Munro, Julieta (che
inizialmente doveva intitolarsi Silencio)
è stato riadattato da Almodóvar alla realtà spagnola che sente di comprendere molto più di
quella americana. Il regista di Donne
sull’orlo di una crisi di nervi, Tutto su mia madre (Oscar al miglior film
straniero), Parla con lei (Oscar per
la migliore sceneggiatura originale) e numerose altre pellicole coinvolgenti,
che hanno portato a considerare i suoi lavori come un genere cinematografico
specifico, questa volta delude fortemente le aspettative.
Innanzitutto appare non necessaria, addirittura controproducente, la scelta di affidare la parte della protagonista a due attrici differenti, per quanto sia la Ugarte che la Suàrez abbiano interpretato bene il ruolo. L’espediente utilizzato per il passaggio dal personaggio giovanile a quello adulto, che avviene sotto un asciugamano, si rivela forse la scelta stilistica più audace, interessante e stranamente azzeccata. Perché per il resto la regia di Almodóvar, e spiace davvero dirlo, è completamente piatta, così come le interpretazioni. Il regista infatti non riesce a trasmettere emozioni, troppo trattenute, nonostante le tragedie nella vita di questa donna siano innumerevoli ed eccessive. Sembra quasi che la protagonista viva i drammi della sua esistenza con una dolorosa e misurata rassegnazione, una sorta di indolenza e muta resistenza al destino avverso dagli echi verghiani, o, ancor più, da tragedia greca (del resto Julieta insegna letteratura classica). Le atmosfere sono affascinanti e i colori forti e accattivanti (solo nelle sequenze legate al passato, sul treno e in Galizia, mentre nel presente è tutto troppo bianco, spento e asettico), per quanto non ai livelli a cui ci ha abituati Almodóvar, ma la sceneggiatura non regge, la trama risulta slegata e senza un senso logico. Il film, già poco avvincente di suo, non porta da nessuna parte e non lascia assolutamente nulla, eccetto forse un senso di incompiuto. I personaggi che ruotano intorno alla protagonista (l’unica con una caratterizzazione più forte) sono poco più che comparse sbiadite, ad eccezione di una delle prime muse del regista spagnolo, Rossy de Palma, nel ruolo della governante. In sintesi, Julieta, più che un film di Almodóvar sembra una telenovela o un film tv, a dimostrazione che la sola estetica non basta quando manca la sostanza.
Innanzitutto appare non necessaria, addirittura controproducente, la scelta di affidare la parte della protagonista a due attrici differenti, per quanto sia la Ugarte che la Suàrez abbiano interpretato bene il ruolo. L’espediente utilizzato per il passaggio dal personaggio giovanile a quello adulto, che avviene sotto un asciugamano, si rivela forse la scelta stilistica più audace, interessante e stranamente azzeccata. Perché per il resto la regia di Almodóvar, e spiace davvero dirlo, è completamente piatta, così come le interpretazioni. Il regista infatti non riesce a trasmettere emozioni, troppo trattenute, nonostante le tragedie nella vita di questa donna siano innumerevoli ed eccessive. Sembra quasi che la protagonista viva i drammi della sua esistenza con una dolorosa e misurata rassegnazione, una sorta di indolenza e muta resistenza al destino avverso dagli echi verghiani, o, ancor più, da tragedia greca (del resto Julieta insegna letteratura classica). Le atmosfere sono affascinanti e i colori forti e accattivanti (solo nelle sequenze legate al passato, sul treno e in Galizia, mentre nel presente è tutto troppo bianco, spento e asettico), per quanto non ai livelli a cui ci ha abituati Almodóvar, ma la sceneggiatura non regge, la trama risulta slegata e senza un senso logico. Il film, già poco avvincente di suo, non porta da nessuna parte e non lascia assolutamente nulla, eccetto forse un senso di incompiuto. I personaggi che ruotano intorno alla protagonista (l’unica con una caratterizzazione più forte) sono poco più che comparse sbiadite, ad eccezione di una delle prime muse del regista spagnolo, Rossy de Palma, nel ruolo della governante. In sintesi, Julieta, più che un film di Almodóvar sembra una telenovela o un film tv, a dimostrazione che la sola estetica non basta quando manca la sostanza.
Julieta, al cinema dal 26 maggio, è un melodramma poco avvincente, un deludente viaggio nell’universo femminile, un passo falso per Pedro Almodóvar da cui ci si aspettava di più. Si tratta decisamente di uno dei suoi lavori meno convincenti, il cui flop in patria non è dunque da imputare solo al coinvolgimento del regista nello scandalo Panama Papers.